Il Papa è morto. Lo sappiamo, lo sappiamo tutti. Lo sa tua nonna, se almeno lei è ancora viva, lo sa il corriere (non solo quello della sera, anche quello dei pacchi), lo sa il panettiere e lo sa anche il cane del vicino che ha imparato a scodinzolare quando sente pronunciare il nome “Francesco” perché lo associa a quel tono da fiction in prima serata che declama la speranza verso il mondo. Ma noi, a differenza del cane, non scodinzoliamo (non tutti, perlomeno) e non abbiamo granché da sperare. Quattro giorni dopo la morte di papa Francesco, l’Italia sembra intrappolata in una bolla temporale, un’ossessione mediatica che non accenna a dissolversi. I quotidiani nazionali, come posseduti da un’urgenza quasi mistica, dedicano ancora fiumi di inchiostro e caterve di pixel al Pontefice defunto e soprattutto a chi si segnala facendosi notare nella circostanza (se non addirittura usandola impropriamente).
Il paradosso non è solo nella durata e nella portata, ma nella densità. Densità della carta, certo: foliazione, grammi per metro quadro, la sindone tipografica con cui si fascia ancora e ancora un corpo che dovrebbe, se non riposare in pace, almeno permettere alla nazione di respirare. Ma anche, e soprattutto, densità semantica: perché tanto non significa molto, e venticinque pagine non equivalgono a una sola pagina necessaria, se quella che si stampa è la litania automatica dell'adorazione tardiva, della santificazione ex machina, dell’applausometro postumo.
Daniele Capezzone, tra i pochissimi a essersi esposti pubblicamente contro la proclamazione del lutto nazionale di addirittura cinque giorni, ha scolpito nella sua Rassegna Scorrettissima un mosaico che, più che scorretto, suona chirurgico, persino scientifico nel dettaglio del disvelamento: “Sui giornali stranieri – l’analisi del direttore editoriale di Libero – lo spazio sulla morte del Pontefice è ormai ridottissimo: c’è l'attesa dei funerali, qualche analisi in prospettiva sul conclave. Sui giornali italiani invece ancora è valanga, con una interruzione a un certo punto, e poi la foliazione riprende sul Papa”.

Ecco la scena madre: il Corriere (stavolta sì, quello della sera) fa una specie di finta di corpo da dribblatore di razza solo per dedicare un paio di pagine al 25 aprile (l’altro grande lutto cerimoniale nazionale, stavolta di tipo secolare), per poi riprendere imperterrito la corsa fino a pagina 21. La Repubblica va oltre con il gesto tecnico: fino a pagina 25. Ed è gol. La Stampa? La cugina di gruppo Gedi si spinge comunque fino alla 17. E Capezzone: “È come – sia consentito, non è un paragone, è un sorriso che facciamo insieme – avete presente i film dell'orrore, dove a un certo punto, a metà del film, sembra che la situazione sia serena, che il mostro non ci sia più? Tac, quello è il momento di massimo pericolo, perché si ricomincia”.
L’orrore non è tanto nella morte, ma nella non-morte della narrazione coatta. L’orrore è l'eterno ritorno del trapassato in prima pagina e in quasi tutte le altre, nella pienezza necromantica del titolo grasso di nero e di cronaca nera, del ritratto ieratico, del verbo agiografico coniugato al presente.
“Però i giornali – aggiunge Capezzone – ci assicurano che il popolo è tutto commosso. Sarà… Noi stiamo constatando specialoni televisivi dagli ascolti molto bassi. Però quello che vi dicono i giornali, praticamente tutti è senza eccezioni, è altro”. Capezzone, ancora, osserva lo “spettacolo” parlamentare, in cui “c'è stata una abbastanza curiosa e surreale gara ad annettersi Bergoglio”, con Meloni che piange e proclama “il Papa ci sorride ancora”, ed Elly Schlein che se lo intasca politicamente da sinistra. Il Papa morto non riposa né in cielo né in terra, ma viene estratto, risucchiato, sballottato in effigie, brandito come reliquia ideologica da opposte fazioni che nel suo pontificato avevano, molto spesso, trovato motivo di irritazione più che di sintonia.
Non è un’esagerazione. È una fotografia: della stampa, della politica, della cultura nazionale intossicata di branding post mortem. Lutto a cinque tempi più un funerale (e chissà cosa dopo), in forma di balletto coreografico, in cui l’Italia – incapace di risolvere i vivi – si rifugia nella messinscena estetica dei morti.

“Voi immaginate di avere un amico straniero – dice Capezzone – a cui dovete raccontare che i tre principali giornali del Paese danno 21, 17 e 25 pagine alla morte del Pontefice quattro giorni dopo la morte. E che poi il grande dibattito politico è se le celebrazioni del 25 aprile debbano essere sobrie o no. Va bene. Poi, qual è il contrario di sobrio? Ubriaco? Forse è un dibattito un po’ ubriaco, però, non vorremmo dire…”
Ma no, diciamolo: il Paese è ubriaco. Di morte e di memoria, di retorica e di carta. Sbronzo di messa in scena, come se la liturgia mediatica fosse ormai la sola forma di credenza che resta. Il vero rito è la rassegna stampa, non la messa funebre. Il vero clero sono i capiredattori, gli editorialisti-esorcisti che danno un senso postumo a ciò che in vita si era spesso rivelato irrisolto, contraddittorio, divisivo, se non del tutto inascoltato.
Papa Francesco non era l’unanime, ma nella morte lo si fabbrica come tale, a uso e consumo di una comunità mediatica che non riesce a tollerare il vuoto o che, peggio, quel vuoto vuole riempirlo del poco con cui può provare a riempirlo, quindi di sé. E allora si stampa, si ristampa, si folia, si imbalsama la cronaca fino a renderla agiografia. Nel frattempo la gente normale ha già da tempo ricominciato a bestemmiare per la Juve e per l’Inter e a cercare foto del culo di Bianca Censori. Anzi, non ha mai smesso.
