C’è la manina, anzi la manona di qualcuno – di qualcuno con un nome e una faccia – dietro gli ultimi sbarchi di migranti sulle coste dell’Italia? C’è chi non ha dubbi, come Massimiliano Romeo, il capogruppo della Lega al Senato: “Mi pare evidente”, ha detto in un’intervista a Libero di oggi 13 marzo, “che la Russia possa avere l’interesse a destabilizzare quell’area geografica per moltiplicare i flussi migratori e mettere in difficoltà i Paesi europei che si sono schierati contro di lei nella guerra con l’Ucraina”. La Russia starebbe mettendo a punto “una vera e propria “bomba migratoria per mettere in difficoltà l’Europa”. Romeo è tranchant per una ragione altrettanto evidente, stando alle sue parole. E cioè lanciare all’opinione pubblica il messaggio secondo cui, siccome l’Italia non ce la fa, come del resto non ce la faceva prima e non ce la farà mai, a reggere da sola il peso degli arrivi, “è arrivato il momento di coinvolgere anche l’Alleanza Atlantica. Serve subito un piano che da un lato stabilizzi la situazione geopolitica in Africa e dall’altro presidi il Mediterraneo e blocchi le partenze”. Poiché l’Unione Europea in tutti questi anni si è dimostrata sorda e inadeguata a mettere in piedi un’organizzazione continentale sul fronte sud delle migrazioni, ecco l’appello alla Nato, soggetto preposto al contrasto anti-russo. Non soltanto in Ucraina, ma anche in Africa.
tra i duemila e i cinquemila uomini del gruppo Wagner”, la milizia privata dell’oligarca putiniano Yevgeny Prigozhin impegnata in vari quadranti di combattimento, dal conflitto ucraino al Sudan. L’alert dei nostri agenti segreti, che in quanto tali vanno presi con le pinze, parlava di “quattro basi militari” presidiate dai mercenari russi “nel territorio del governo non riconosciuto di Tobruk (Brak al Shati, Jufrah, Qardabiyah e Al-Khadim)”. Breve promemoria: in Libia, dalla caduta di Gheddafi, favorita dai bombardamenti e dalle forniture di uomini e mezzi da parte di Francia e Inghilterra in primis con l’appoggio degli Usa e nostro, lottano per la supremazia due governi contrapposti, quello di Tripoli che gode del riconoscimento internazionale (nonché degli aiuti militari di Turchia e Qatar) ma non della fiducia del suo stesso parlamento, e quello sostenuto dal parlamento, ma non dall’Occidente, e che invece è supportato dalle truppe del generale Haftar. Ma anche dalla Russia, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Appena una settimana fa, Haftar ha gonfiato il petto promettendo solennemente che non rinuncerà “mai” a conquistare la capitale Tripoli. In realtà, sembrerebbe che già dalla seconda metà del 2022 i due fronti sarebbero in riavvicinamento per spartirsi i proventi della National Oil Corporation, la società nazionale che gestisce l’oro nero libico, il petrolio. Il 19 settembre, dopo aver assistito a un aumento delle partenze, da parte del governo-fantoccio di Haftar è stata mossa anzi l’accusa ai rivali di aver ostacolato la lotta ai viaggi clandestini, e le dichiarazioni in questo senso sono state rilasciate non per caso all’agenzia di stampa russa Sputnik. L’unico dato certo è che in Libia sono stipati in centri-lager migliaia di immigrati e rifugiati privati dei diritti umani basilari (a settembre 2661 persone, secondo le Nazioni Unite) e in tutto addirittura 600 mila, sparsi per il territorio libico, secondo un rapporto risalente a giugno di Medici senza frontiere. I russi, in effetti, sull’altra sponda del Mediterraneo ci sono. In veste semi-ufficiale, ma ci sono. Secondo una fonte dei servizi segreti italiani citata da Repubblica nel luglio scorso, sarebbero presenti in Cirenaica “
Quel che dovrebbe essere altrettanto sicuro, perché pubblicamente fatto trapelare, è che gli Stati Uniti starebbero premendo sugli alleati mediorientali, l’Arabia Saudita e l’Egitto, perché i miliziani della Wagner levino le tende dallo scacchiere africano. Non risultano prove, tuttavia, che i russi abbiano un ruolo diretto nel traffico di esseri umani dalle rive libiche. Indiretto, al più, nelle pieghe del complicato risiko locale. Perché oltre al livello più ufficiale dei due governi l’un contro l’altro armati, ne esiste altri due. Uno, almeno a sentire gli ispettori Onu, di ben quattro “guardie costiere” a loro volta in guerra fra loro: la Marina libica, la Guardia Costiera libica sotto il comando e il controllo del ministero della Difesa, l’Amministrazione generale per la Sicurezza Costiera (Gacs) sotto l’autorità del ministero dell’Interno, e le unità marittime controllate dall’apparato di supporto alla stabilità. Dietro, e siamo al terzo livello, l’arcipelago dei clan della criminalità organizzata, di fatto le vere dominatrici delle acque territoriali. Piuttosto, la presenza accertata, o sulla carta quanto meno accertabile, di una componente russa nelle migrazioni mediterranee si concentrerebbe in un aspetto circoscritto che per la precisione riguarda gli scafisti. Collegato, fra l’altro, con le conseguenze dello scontro bellico in Ucraina. Un lato del prisma già verificato, e che è suscettibile di interpretazioni.
Un servizio del 22 gennaio del quotidiano inglese The Guardian, testata con una sua solida autorevolezza nelle inchieste, informava che nell’ultimo anno cittadini russi sarebbero reclutati dai trafficanti per sostituire i marinai ucraini al comando delle barche sulla rotta turca verso l’Italia attraverso il mar Ionio. Esattamente quella a cui si deve la strage nella secca di Cutro in Calabria. Le fonti del giornale britannico sono la ong Arci Porco Rosso e la no profit Borderline Europe. Per la precisione, 14 russi sarebbero stati arrestati dalla polizia italiana dopo l’invasione dell’Ucraina (oltre a siriani, bengalesi e di altre nazionalità asiatiche). La rotta sarebbe in mano a contrabbandieri turchi e avrebbe come basi di partenza Bodrum, Izimir e Çanakkale in Turchia. Ma mentre prima a pilotare le imbarcazioni c’erano esclusivamente capitani ucraini, in gran parte disertori per evitare l’arruolamento nella guerra degli anni scorsi contro i separatisti del Donbass, dal febbraio dell’anno scorso le frontiere ucraine sono state ermeticamente chiuse e così le cosche di scafisti hanno cominciato a pescare anche fra i loro nemici. Tanto, per loro, non c’è differenza. A conferma del dato, il 26 febbraio, il Corriere della Sera riportava che già a novembre un veliero con 99 afghani e pakistani a bordo, arrivato in Sicilia il 4 di quel mese, era guidato da skipper di nazionalità russa, ma la bave batteva bandiera ucraina. Questo può voler significare che Vladimir Putin lascia appositamente che uomini del proprio Paese entrino nel business dell’immigrazione illegale, sia pur, a quanto pare, solo in una fascia della catena di comando, e ciò per una deliberata strategia di infiltrazione così da destabilizzare, come si diceva, Stati come il nostro? In base agli indizi, l’interrogativo è lecito. La risposta, al momento, sconosciuta.