Erano state ammesse cinque domande. Cinque domande, ovvero cinque giornalisti di testate nazionali (più una meridionale, la Gazzetta del Sud) ammessi e prestabiliti. Così, almeno, secondo lo schema definito dal neo-portavoce della Presidenza del Consiglio, Mario Sechi. La tragica conferenza stampa del governo riunitosi ieri a Cutro è andata di traverso non solo a lui, ma soprattutto a Giorgia Meloni. Le incongruenze e i punti che non tornano nella ricostruzione della morte per affogamento di 72 migranti a 100 metri dalla riva di Steccato di Cutro si sono tradotti nelle incertezze, nei lapsus e nel balbettii di una premier che, fumantina com’è, non è riuscita a contenere la rabbiosa stizza per le versioni, condite di dubbi e accuse, circolate sui media. Troppo nervosa, la Meloni, ieri nel tetro cortile del municipio cutrese. E forse anche, stranamente data la sua esperienza, colta in fallo di sottovalutazione della rediviva verve polemica delle “jene dattilografe”, come le chiamò un giorno D’Alema con la consueta sprezzatura. Altro che cinque-domandine-cinque: s’è scatenato un parapiglia, con i giornalisti presenti, ma esclusi dal copione concordato, che hanno fatto piovere una gragnuola di domande fuori menu.
Era ovvio e naturale che succedesse. Non tanto per l’oggettiva comicità di scalette pre-confezionate da parte di fior di giornalisti che, indossati i panni di addetti stampa, sembrano cambiare di colpo natura perdendo il polso della situazione (“Scusate ragazzi, non è un dibattito, non si fa così,”, è sbottato il capoclasse Sechi, improvvisando una penosa ramanzina: “Non è professionale... Silenzio, grazie!”). No, più che altro c’era da aspettarselo, il ritorno di fiamma dell’indomito spirito critico di una stampa, certa grande stampa, che invece con Mario Draghi e prima ancora con Giuseppe Conte - il Conte 2, si capisce, non l’1 – tutto questo spirto guerrier lo palesava pochino, praticamente niente. Certo, l’impatto simbolico della strage di Cutro è stato più forte delle tante vittime inghiottite, scuserete il ripugnante termine, “normalmente”, nei mesi e negli anni, dai flutti del Mediterraneo. Tutti così, in una botta, a poca distanza dal bagnasciuga, con la Guardia Costiera che ancora non si comprende perché non sia partita in tempo per il salvataggio, è obbiettivamente dura da digerire anche per il più filo-governativo dei filo-governativi. Tanto è vero che la Meloni, pur ribadendo la linea ferrea sul contrasto all’immigrazione, ha voluto sottoporsi ai carboni ardenti di un Consiglio dei Ministri straordinario lì, nel luogo della strage, abborracciando una conferenza stampa tirata per i capelli, visibilmente ob torto collo.
Il fatto è che, su questo fronte, il governo Meloni espone il fianco alle critiche che vengono più facili al mainstream mediatico, diciamo all’intero panorama dei giornali eccezion fatta per quelli schierati apertamente a destra (o per i pochissimi che menano in tutte o quasi le direzioni), che forma un coro scattante come un sol uomo nell’azzannare da un lato sui temi di sicura presa emotiva, e dall’altro, cosa determinante, nel mostrarsi pugnace a seconda che l’inquilino di Palazzo Chigi sia uno, o una, “dei loro” (come Draghi), o comunque accettabile (come il “Giuseppi” declinato a centrosinistra). Perché sinistra, liberal e cattolici escono i canini solo quando si tratta della destra manifesta, per così dire. Quella che porta come una croce la filiazione dal “fascismo eterno”, volendo dirla alla Umberto Eco. Di contro, con la sub-destra di concezione bruxellese incarnata da un Draghi, e tanto più con un animale esotico, ambiguo e tuttavia allora “ripulito” dalla rassicurante alleanza con il Pd, com’era il grillino Conte in versione bis, l’aggressività da penne all’arrabbiata diventava il miagolìo di mici dediti a far le fusa.
Ché poi, mettendosi al loro posto, politicamente in questo caso una ragione ce l’hanno pure. Dal gran Consiglio di ieri, infatti, è stato partorito un decreto in cui, per stessa ammissione della Meloni, “sono entrate molte proposte della Lega”. Il vincitore di questo momento politico è Matteo Salvini, non si discute. E il solo pronunciare il nome di Salvini è come bestemmiare in chiesa, per i cacciatori di nefandezze esclusivamente destrorse. L’aumento delle pene fino a trent’anni per gli scafisti, anche beccati fuori dalle acque territoriali (“andremo a cercare i trafficanti lungo tutto il globo terraqueo”: e chi sei, Meloni, il capitano Nemo?), i finanziamenti per nuovi centri di rimpatrio cioè di detenzione per clandestini, la restrizione della “protezione speciale”, nonché lo stop al tentativo della Difesa di trasferire la Guardia Costiera sotto il suo coordinamento sottraendolo ai Trasporti (ossia a Salvini, che ne è il geloso ministro), sono tutti risultati all’attivo del bilancio leghista. Del resto, il titolare dell’Interno, Matteo “Lupo” Piantedosi, è una controfigura politica del leader del Carroccio: quando quest’ultimo gestiva l’Interno nel Conte 1, Piantedosi era il suo capo di gabinetto. Piantedosi uguale Salvini, equazione matematica semplice.
L’ulteriore stretta, a ogni modo, sempre secondo la Meloni dovrà essere affiancata da un ruolo più presente dell’Europa. Il che è indubbiamente vero, ma campa cavallo: è una litania che si ripete da tempo immemore, troppi e troppo forti sono gli interessi incrociati di altri Stati, dalla Germania ai Paesi nordici per tacere della Francia, a cui fa comodo scaricare l’incombenza sulle frontiere più esposte agli approdi, le nostre e le greche, i due ventri molli dell’Unione (la Spagna, governi la destra o la sinistra, ha una politica sui confini che farebbe impallidire gli attuali ammiratori socialistoidi nostrani). Tirando le somme, il commento più realistico è venuto da Silvio Berlusconi, ormai compreso nella parte del frondista interno: il decreto va “nella giusta direzione, ma non potrà forse essere risolutivo”. Ma va?