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Oltre al GENOCIDIO! Vi spiego cos’è il VOCICIDIO: Israele uccide 250 giornalisti a Gaza e non sa più giustificarsi: e voi, che continuate a difenderlo, sì?

  • di Leonardo Caffo Leonardo Caffo

  • Foto: Ansa

27 agosto 2025

Oltre al GENOCIDIO! Vi spiego cos’è il VOCICIDIO: Israele uccide 250 giornalisti a Gaza e non sa più giustificarsi: e voi, che continuate a difenderlo, sì?
250 giornalisti uccisi, un numero incomparabile a quello di tutte le guerre precedenti. E Israele non sa più trovare una giustificazione, parla solo di incidenti, di errori. Ma l’informazione libera è una necessità e solo chi sa di commettere un genocidio può chiudere la bocca ai professionisti a Gaza. Ecco cos’è il “vocicidio”

Foto: Ansa

di Leonardo Caffo Leonardo Caffo

È difficile capire nel profondo cosa sia un giornalista oggi, soprattutto nell’epoca in cui molto di questo mestiere è stato ridotto a sensazionalismo, consenso immediato filtrato dai social, notizie false o ritagliate a puntino per indignazioni moralistiche. È difficile ma è ancora necessario spiegarlo: i giornalisti sono fondamentali, quando fanno bene il loro lavoro, perché ci permettono di cogliere visioni di mondo che altrimenti andrebbero totalmente perse. Per quanto filtrate, e giustamente partigiane, le parole di un cronista sono luce su cose, fatti, eventi, di questo universo così complesso che è la Storia umana che altrimenti andrebbero perdute. Si può odiare, contestare, criticare, talvolta ignorare, soprattutto tentare di falsificare, l’opinione o il racconto di un giornalista ma quello che non s può mai fare è silenziare con la forza questa voce: ogni qualvolta avviene siamo davanti a un regime, alla fine delle leggi più basilari della convivenza umana, siamo davanti a Victoria Roshchyna - giornalista, torturata e uccisa per aver documentato l’occupazione russa in Ucraina - e alle altre decine di cronisti uccidi durante ogni guerra per evitare che la verità, anche fosse solo una parte di questa verità, venga a galla. Si parla molto, in questi giorni, della strage di giornalisti sulla striscia di Gaza a opera di quella che una volta era la democrazia dello Stato di Israele ma che oggi appare sempre di più come un regime. Non schierarsi ormai è impossibile, si tratta di commentare quelli che sono fatti ormai sotto gli occhi di tutti. Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ) e Reporters Senza Frontiere (RSF) hanno documentato un numero senza precedenti di morti tra i giornalisti in poco più di un mese. Secondo i dati del CPJ aggiornati ieri L'ultimo attacco porta a quasi 250 il numero di giornalisti morti a Gaza dal 7 ottobre 2023. La maggior parte di loro è stata uccisa da attacchi israeliani a Gaza  (alcuni sono stati uccisi da Hamas o da attacchi in Libano ma il numero è irrisorio rispetto alla responsabilità di Israele). Ogni nome è un mondo, una storia, una visione che non vedremo mai più. Persone come Roshdi Sarraj, fondatore di Palestine Today e fotoreporter per l'Agence France-Presse (AFP), ucciso in un attacco aereo israeliano il 22 ottobre, o Mohammad Abu Hatab, corrispondente di Palestine TV, ucciso insieme a 11 familiari in un attacco israeliano sulla sua casa. Erano lì per raccontare, per dare un nome e un volto a una sofferenza che altrimenti resterebbe solo un numero. Erano lì perché, come diceva Tiziano Terzani, la guerra non può e non deve essere lasciata solo nelle mani dei militari ma ha bisogno anche, e forse soprattutto, di voce e indignazioni civili.

Il giornalismo, nella sua forma più nobile, non è solo un mestiere, è una necessità. È l'occhio che osserva, la mano che scrive, la voce che racconta: ci si deve ricordare, in un mondo sempre più polarizzato in cui la narrazione è tutto e la verità è un optional, come il giornalista dovrebbe rimanere l'ultimo baluardo del dire al di là di ogni possibile consenso. Non si tratta di essere obiettivi - l'obiettività è un concetto astratto e spesso ipocrita - ma di essere onesti. Di raccontare la propria parzialità, i propri dubbi, le proprie paure, e di farlo con la consapevolezza che ogni parola può fare la differenza. Quando un giornalista viene ucciso, non muore solo una persona, ma una possibilità. La possibilità di capire, di empatizzare, di non voltarsi dall'altra parte. È un attacco non solo all'individuo, ma al pensiero critico, alla libertà di espressione, alla nostra stessa umanità. I dati del CPJ sono inequivocabili: l'esercito israeliano, negli ultimi anni, ha ucciso più giornalisti palestinesi che qualsiasi altro esercito al mondo. Non sono incidenti. Sono morti sospette, in un conflitto in cui la disinformazione è un'arma potente e il silenzio un alleato prezioso. Il filosofo francese Maurice Blanchot, nel suo libro La scrittura del disastro, parlava del disastro come di un evento che non può essere narrato, che trascende il linguaggio. Ma il giornalista, il vero giornalista, tenta di fare proprio questo: di raccontare l'indicibile, di dare forma al caos, di rendere visibile l'invisibile. Uccidere un giornalista è uccidere la possibilità stessa di una narrazione. Di un racconto. E senza racconto non c'è memoria, non c'è storia, non c'è futuro. Resta solo l'oblio. E l'oblio è la vittoria finale di chi semina il terrore. 

Mohammed Salama, giornalista di Al jazeera rimasto ucciso nel raid presso l'ospedale Nassar di Khan Younis, a Gaza, 25 agosto 2025
Mohammed Salama, giornalista di Al jazeera rimasto ucciso nel raid presso l'ospedale Nassar di Khan Younis, a Gaza, 25 agosto 2025 Ansa

La richiesta di silenzio, il tentativo di soffocare la voce di chi racconta la guerra, non è un incidente di percorso, ma parte integrante della strategia bellica di Israele. È cosa nota e antica: il generale prussiano Carl von Clausewitz sosteneva che la guerra non è solo un atto politico, ma anche un atto di violenza in cui ogni aggressore mira a costringere l’avversario a fare la propria volontà attraverso un lavaggio del cervello totale. La guerra è anche, e forse soprattutto, una questione di narrazione, di controllo del racconto. La menzogna è un’arma come lo è spesso nei tribunali dove si condannano ingiustamente le persone, e il giornalista, nel suo lavoro di scavo, di ricerca della verità (o quantomeno di una sua porzione), diventa una minaccia. La distruzione delle infrastrutture civili, come scuole, ospedali e, in questo caso, le redazioni giornalistiche, non è un danno collaterale. È un messaggio. Un messaggio preciso e spietato: chiunque provi a raccontare la storia da un'angolazione diversa da quella ufficiale israeliana subirà le conseguenze. E il messaggio non è solo per i giornalisti a Gaza, ma per tutti noi. Anche per me adesso. La guerra si combatte anche sui nostri schermi, nelle nostre case, nella nostra mente. E i giornalisti sono i soldati in prima linea di questa guerra cognitiva. 

L'uccisione di un giornalista è un crimine di guerra, forse andrebbe ricordato. Lo sanciscono il diritto internazionale e le convenzioni di Ginevra. Ma nel fumo della guerra, queste leggi sembrano evaporare. E in questa nebbia, nomi come Motaz Azaiza o Bisan Owda, che con i loro reportage e i loro video sui social media hanno raggiunto milioni di persone, diventano il simbolo di una nuova resistenza. Una resistenza che si combatte con i telefoni e i video, contro i droni e i missili. Questo silenzio imposto, questa indifferenza che fino a poco tempo fa caratterizzava anche molti quotidiani italiani che usavano locuzioni demenziali come “conflitto israelo-palestinese” dove invece c’è una aggressione pura, non è solo un problema di e per Gaza, ma un problema che riguarda tutti noi. La filosofa Hannah Arendt, nel suo studio celebre e citato spesso a caso sulla banalità del male, sosteneva che i grandi crimini non sono commessi solo da mostri, ma anche da persone comuni, che rinunciano a pensare, a interrogarsi, a sentire. L'indifferenza è il terreno fertile su cui crescono le ingiustizie. Se ci limitiamo a guardare i numeri, a contare i morti senza nomi, senza volti, senza storie, diventiamo complici. Tiziano Terzani, nel suo Un indovino mi disse, rifletteva sull'importanza di fermarsi, di guardare le cose da un'altra prospettiva, di non farsi inghiottire dalla frenesia della vita moderna e dalla superficialità dell'informazione. La sua figura di "corrispondente" non era quella di un semplice reporter, ma quella di un uomo in cerca di un senso, che non aveva paura di mettersi in gioco e di cambiare idea. 

Oggi, i giornalisti a Gaza, che lavorano in condizioni disumane, tra bombardamenti, fame e mancanza di acqua, sono la testimonianza vivente di questo impegno. Uomini e donne come Issam Abdallah, reporter di Reuters, ucciso il 13 ottobre, o Yasser Murtaja, ucciso da un cecchino israeliano durante una manifestazione. Questi non sono nomi, sono ferite. E ignorarle significa continuare a morire un po' ogni giorno. Il fatto che il governo di Israele abbia dichiarato guerra anche ai giornalisti, che si tratti di civili palestinesi o stranieri, è la prova definitiva che la "democrazia" in Medio Oriente è finita anche nell’ultimo posto che si vantava di averla. La censura, le intimidazioni, e infine gli omicidi, mostrano che la leadership di Netanyahu non vuole che il mondo sappia cosa succede davvero. La guerra a Gaza, in questo senso, è un'operazione per cancellare una verità, per sradicare una popolazione, non solo fisicamente ma anche dal punto di vista narrativo. Più che davanti a un genocidio qui siamo tecnicamente davanti a un territori-cidio, ma l’analisi della cosa è complessa e in questa sede ci porterebbe lontano. In un mondo dove il reportage è sempre più marginale, in cui le notizie sono un semplice flusso continuo di informazioni non verificate e dove questo stesso articolo non verrà mai letto se non per qualche sua frase estrapolata per Instagram o Facebook, e in cui dunque l'analisi e la profondità sono sacrificate in nome del "click", il ruolo del giornalista diventa ancora più cruciale. E la nostra responsabilità, come consumatori di informazione, è quella di cercare, di scavare, di andare oltre i titoli e le "breaking news" che ci vengono proposte. La morte di un giornalista non è solo una tragedia, è un campanello d'allarme. Ci sta dicendo che la nostra libertà, la nostra democrazia, è in pericolo. Perché se non possiamo più fidarci di chi ci racconta la verità, o quantomeno una sua parte, allora cosa ci resta? Quattro cretini su Instagram che falsificano il reale? L'ignoranza, la paura, il silenzio. E in questo silenzio, la Storia può compiere i suoi orrori più grandi, senza che nessuno sia lì a guardarli. 

I bombardamenti all'Ospedale di Nasser
I bombardamenti all'Ospedale di Nasser Ansa

Per non dimenticare è necessario continuare a fare i nomi, non solo a dare i numeri. La lista del Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ) e di Reporters Senza Frontiere (RSF) è un necrologio che dovrebbe essere appeso in ogni redazione, in ogni università, in ogni casa. Alcuni nomi per non dimenticare:

Issam Abdallah: Videografo per Reuters, ucciso da un attacco aereo israeliano il 13 ottobre.
Mohammad Abu Hatab: Corrispondente per Palestine TV, ucciso insieme a 11 familiari in un raid aereo israeliano il 2 novembre.
Roshdi Sarraj: Fotografo e giornalista per Agence France-Presse (AFP), ucciso in un bombardamento aereo israeliano il 22 ottobre.
Sari Mansour: Direttore del Quds News Network, ucciso in un attacco aereo israeliano il 26 novembre.
Hassan Farajallah: Videoreporter per Al-Manar TV, ucciso in un attacco aereo israeliano il 7 novembre.
Samar Abu Elouf: Giornalista freelance, uccisa in un raid aereo israeliano il 10 ottobre.
Yasser Murtaja: Giornalista freelance, ucciso da un cecchino israeliano durante una manifestazione nel 2018, il suo nome è spesso ricordato in questo contesto.
Mohammad Al-Salihi: Fotoreporter, ucciso da un bombardamento israeliano il 18 ottobre.
Mohammad Baalousha: Giornalista per Al-Shorouk News, ucciso in un attacco aereo israeliano il 10 novembre.
Ahmad Al-Najjar: Videografo per Al-Aqsa TV, ucciso in un raid aereo israeliano il 18 novembre.
Saeed Al-Taweel: Giornalista e capo redattore di Al-Shorouk News, ucciso in un bombardamento israeliano il 10 novembre.
Mohammad Hassouna: Giornalista per Palestine Today, ucciso in un bombardamento israeliano il 13 novembre.
Youssef Dawwas: Giornalista per Al-Aqsa TV, ucciso in un attacco aereo israeliano il 18 novembre.
Montaser Al-Sawaf: Fotoreporter per Agence France-Presse (AFP), ucciso in un bombardamento israeliano il 15 novembre.
Hani Al-Madhoun: Giornalista per Al-Aqsa TV, ucciso in un raid aereo israeliano il 18 novembre.
Nidal Al-Waheidi: Giornalista per Al-Shorouk News, ucciso in un bombardamento israeliano l'11 novembre.
Iyad Al-Rawad: Giornalista per Al-Shorouk News, ucciso in un bombardamento israeliano l'11 novembre.
Majd Fadl: Giornalista e operatore dei media, ucciso in un attacco aereo israeliano il 10 ottobre.
Hala Al-Omari: Giornalista per Al-Aqsa TV, uccisa in un raid aereo israeliano il 18 novembre.
Ahmed Shehab: Giornalista per Palestine Today, ucciso in un raid aereo israeliano l'11 ottobre.

Queste persone sono morte perché volevano raccontare la loro storia, dunque contribuire anche alla nostra e permettere a quel “mondo deve sapere” di continuare a realizzarsi. E in un mondo che sembra aver perso la capacità di ascoltare, di concentrarsi su visioni più complesse dell’ovvietà da due frasi e due click, dobbiamo lottare con tutte le nostre forze perché queste persone non siano morte invano. Io non so se a Gaza c’è un genocidio o un territori-cidio, questo compete un dibattito filosofico e politico profondo da fare nelle sedi adeguate, ma so che di sicuro è in atto un “voci-cidio”: non significa solo "uccisione delle voci”, ma che Israele sta evocando l'atto deliberato e sistematico di sopprimere la narrazione di un intero popolo come incredibilmente era successo proprio agli ebrei attraverso l'eliminazione della memoria e della verità. Una perversa dinamica hegeliana servo-padrone fa si che coloro che un tempo avevano rischiato di essere cancellati ora stiano cancellando un popolo e chi vuole raccontarne la resistenza: voci-cidio è un termine che vuole sottolineare come l'uccisione di un giornalista non sia un semplice atto di violenza, ma un attacco all'essenza stessa della Storia umana, un tentativo di cancellare la testimonianza e di imporre il silenzio assoluto. Per questo dobbiamo continuare a parlare per chi oggi non ha più voce. 

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