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Elkann con Trump da Bin Salman? Stellantis con “Batman & Robin” (Lapo docet) ha abbandonato l’Italia prima (“Alto tradimento” come il libro di Bonazzi?), con Tavares, cassa integrazione, “pressioni a mezzo stampa” sul Governo e…

  • di Matteo Suanno Matteo Suanno

  • Foto: illustrazione realizzata con IA

15 maggio 2025

Elkann con Trump da Bin Salman? Stellantis con “Batman & Robin” (Lapo docet) ha abbandonato l’Italia prima (“Alto tradimento” come il libro di Bonazzi?), con Tavares, cassa integrazione, “pressioni a mezzo stampa” sul Governo e…
La visita di John Elkann al sovrano saudita Mohamed Bin Salman nel corso del grande vertice di business capeggiato da Donald Trump a Riad ha reso evidente che il futuro di Stellantis è altrove. Niente più Italia, figuriamoci Torino. Ma la fuga dell’automotive dal nostro paese non è certo colpa di Trump. È frutto di un processo iniziato con l’arrivo di Tavares come amministratore delegato (che per Lapo col fratello John formata una coppia da "Batman & Robin"), la fusione con i francesi di Groupe Psa proseguito con una sequenza interminabile di annunci e promesse mai rispettati, finiti in chiacchiere – spesso a mezzo stampa – e nello sterile rimpallo di responsabilità con il governo, come raccontato da Francesco Bonazzi nel libro "Alto tradimento" (Aliberti)

Foto: illustrazione realizzata con IA

di Matteo Suanno Matteo Suanno

Ma il divorzio tra Stellantis dall'Italia è iniziato a Riad, con l'"inchino" di John Elkann – al seguito di Donald Trump – a Mohamed Bin Salman? O durante la visita proprio al tycoon di qualche settimana fa, per provare a sottrarre Stellantis alla ghigliottina dei dazi? No, l'abbandono dell'Italia è iniziato ben prima del mondo che Trump ha contribuito a rovesciare. E allora, viene da chiedersi, come è stato possibile che Stellantis allontanasse l’industria dell’automotive senza che l’Italia alzasse un dito? C’entrano anni di promesse non mantenute e annunci profusi a gettare fumo negli occhi. Anni di investimenti orfani di una visione conscia del contesto globale e di lungo periodo, di ambizioni irrealizzabili infrantesi nel trito e ritrito rimpallo di responsabilità con il governo. È una storia di tradimento, o meglio, di Alto tradimento, come recita il titolo del libro scritto da Francesco Bonazzi di cui La Verità ha appena pubblicato un estratto. Perché la delocalizzazione che ha portato all’allontanamento di Stellantis dall’Italia sotto la gestione di John Elkann e Carlos Tavares, e dunque dagli storici stabilimenti Fiat, oggi “l’ex più grande fabbrica d’Europa”, ha scatenato l’emorragia industriale del nostro Paese, risvegliando l’inquietudine strisciante dell’impoverimento collettivo. Insomma, “alto tradimento” come attentato allo Stato e alla sua sicurezza, così come enunciato dalla nostra Costituzione.

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John Elkann, amministratore delegato di Stellantis Illustrazione IA

Avremmo dovuto forse accorgercene grazie all’insospettabile Lapo, che in un tweet di qualche anno fa paragonò il fratello e l’amministratore delegato portoghese a “Batman&Robin”, definendo “un capolavoro” ciò che il duo alla guida del gruppo nato dalla fusione tra Fca e Groupe Psa aveva intenzione di fare. A quell’epoca Elkann e Tavares avevano annunciato un piano investimenti da 3,7 miliardi di euro “senza chiudere stabilimenti” che avrebbero dovuto lanciare il gruppo verso una dimensione globale. Allora si era parlato di “sinergie, un simpatico termine-vaselina inventato dalla comunicazione aziendale per indicare tagli e risparmi”, scrive Bonazzi. Tavares aveva tentato di indorare la pillola con ricorrenti visite agli stabilimenti, cominciando dagli oltre settemila dipendenti di Mirafiori e Melfi, suscitando un’inspiegabile ondata di acclamazione da parte delle agenzie stampa italiane. È davvero così inusuale che un amministratore delegato incaricato di trasformare radicalmente un’azienda visiti gli stabilimenti di quella stessa azienda? Al massimo, i suoi movimenti dovrebbero essere accompagnati da grande attenzione e capacità d’analisi. Ma si tratta di uno sforzo troppo oneroso per la stampa italiana, metà della quale risponde proprio all’editore Elkann. Ecco perché allora ci si astenne dal sottolineare ciò che per Tavares rappresentavano delle criticità assolute per l’azienda: “il costo delle forniture, a cominciare dall’energia”. Per il portoghese il costo delle componenti era insostenibile e aggravato dal “grave problema” della “commistione di interessi tra dirigenti e fornitori”, che gravava sulle casse di Stellantis. L’altro problema era il costo dell’energia elettrica ma, anche in quel caso, “i giornali non fanno una piega perché si tratterebbe di spiegare agli italiani una serie di dettagli antipatici e complicati sulle loro bollette”.

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John Elkann e Carlos Tavares Illustrazione IA

Elkann e Tavares continuano a lanciarsi in annunci temerari, come quella frase “inquietante” pronunciata dal presidente a Porta a Porta nel centenario della nascita dell’Avvocato Gianni Agnelli. A una domanda sul futuro di Torino con Stellantis, Elkann risponde “è un po’ come quando i genitori si lasciano e si rifanno una famiglia: le case al mare e in montagna raddoppiano”. Parole che fanno decollare definitivamente l’astronave Stellantis su un altro pianeta, il suo, lasciando operai e stabilimenti sempre più disorientati: “Per tutto il primo anno, i sindacati continuano a non avere idea dei piani di Stellantis, mentre viene fatta girare la nuova chimera: la Gigafactory delle batterie elettriche”, scrive Bonazzi. Qui inizia dapprima una “guerra tra poveri” sulla scelta del sito – fu scelta Termoli, in Molise, perché “area depressa”, suscitando la rabbia di Mirafiori – e poi un infinto rimpallo di responsabilità tra l’azienda e il governo, con Stellantis che chiede il massimo di fondi pubblici e di flessibilità sugli ammortizzatori sociali. Così la Gigafactory diventa il grande orizzonte che consente a Stellantis di proseguire con tagli e cassa integrazione. Ma nel frattempo la vicenda si Stellantis, che ha sede in Olanda e vede negli Stati Uniti il proprio mercato di riferimento, si perde nella solita sequela di rinvii e chiacchiere, di “pressioni a mezzo stampa” – scrive Bonazzi – sul governo. Senza che nessuno alzasse un dito.

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