Non è bello fare confronti con altre situazioni del passato o cercare un colpevole quando una tragedia come quella accaduta alla Toyota Material Handling (Tmh) di Bologna è ancora fresca. Il bilancio del grave incidente avvenuto nello stabilimento dell’azienda in via Persicetana 10, a Borgo Panigale, parla di due morti e 11 feriti. La causa? Le indagini sono ancora in corso, ma pare che tutto sia partito dall’esplosione di uno strumento a pressione, forse un compressore, che avrebbe poi provocato il crollo di un pilastro di un capannone del sito. L’atroce beffa è che, proprio in queste ore, era previsto uno sciopero per la sicurezza sul lavoro “a causa di altre situazioni a livello produttivo dove il sindacato aveva già ravvisato e denunciato carenze dell'azienda nel rispetto delle procedure”, si legge in una nota firmata dal segretario generale Fim Cisl Ferdinando Uliano. Si è trattata di una triste fatalità o di un episodio evitabile? Toccherà agli inquirenti dare risposte, ricostruire dinamiche, vagliare filmati, trovare prove. Una domanda sorge però spontanea: perché in Italia, non certo un Paese del terzo mondo, continuano a succedere cose del genere come in un Bangladesh o Sri Lanka qualsiasi (con tutto il rispetto per Bangladesh o Sri Lanka)?
Per quanto riguarda l’azienda, Toyota Material Handling fa parte della multinazionale giapponese Toyota Industries Corporation (Tico), ed è leader mondiale nella realizzazione di soluzioni logistiche. Quella di Bologna occupa 850 dipendenti e si era espansa negli ultimi anni. La Toyota Motor Corporation, il ramo Toyota incaricato di produrre automobili, introdusse il carrello elevatore (il modello La) in Giappone nel 1956 e seguì con il trattore da traino nel 1957. Nel 1967, Toyota vendette il suo primo carrello negli Stati Uniti e vi aprì la sua prima concessionaria. A seguito di fusioni e unioni, avrebbe poi preso vita Tmh, una delle numerose “filiali” dell’impero Toyota. Per quanto riguarda la Tmh di Bologna nella quale è avvenuta l’esplosione, sul suo sito si legge che “il metodo Tps, il Toyota Production System, è parte integrante dell’azienda bolognese che riesce a coniugare i principi produttivi della casa madre giapponese con la tradizione del suo polo di ricerca e sviluppo, centro nevralgico dell’innovazione tecnologica a livello europeo”. Scendendo nei dettagli, l’azienda progetta e realizza una gamma completa di carrelli controbilanciati elettrici, con una capacità da 1 a 8,5 tonnellate. “I prodotti Toyota Material Handling, dal design inconfondibile, sono ideati e costruiti per garantire la massima funzionalità, con una costante attenzione alla tutela dell’operatore e dell’ambiente”, si legge ancora sul sito.
Non è la prima volta che la giapponese Toyota deve fare i conti con incidenti avvenuti nei suoi numerosi stabilimenti o in quelli gestiti da fornitori. Nell’ottobre del 2023, per esempio, Toyota Motor aveva sospeso le attività in ben sei centri, in Giappone, in seguito a un’esplosione avvenuta in una fabbrica gestita, appunto, da uno dei suoi fornitori di componenti. La deflagrazione in questione aveva interessato il sito di Chuo Spring, nella prefettura di Aichi, dove venivano prodotte le bobine per sospensioni dei veicoli per numerose case automobilistiche nipponiche. Il bilancio? Molto meno grave di quello avvenuto in Italia (ma le dinamiche e i contesti erano assai diversi): un dipendente ricoverato in ospedale e un altro ferito lievemente. Poco prima, Toyota era stata costretta a chiudere tutti i suoi 14 stabilimenti nazionali per un giorno a causa di un problema nel sistema di produzione. A febbraio 2022, era stata costretta a fare altrettanto dopo che uno dei suoi fornitori era stato sottoposto a un attacco ransomware. In Giappone nessuno si è fatto particolarmente male e dunque viene da chiedersi, di nuovo, se quanto avvenuto in Italia fosse evitabile. E, soprattutto, se l’esplosione può essere considerata figlia di un errore di qualche dipendente o frutto di un sistema lavorativo da rivedere sin nei minimi dettagli.