L’informazione ai tempi del conflitto in Ucraina passa anche attraverso l’ascolto del fronte avversario? Indubbiamente sì, visto che l’Italia ufficialmente non è in guerra. Tutto si gioca sul come trattare la voce della Russia. Nell’arco di un mese, Giuseppe Brindisi su Rete 4 e Massimo Giletti su La7 hanno condotto due interviste estremamente significative sotto il profilo giornalistico. Al primo è andata meglio: in data 1 maggio, a Zona bianca, per una buona quarantina di minuti ha avuto dall’altra parte dello schermo il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov. Oggettivamente, uno scoop internazionale. Il secondo, gran cerimoniere di Non è l’arena, si è dovuto accontentare della portavoce di Lavrov, Maria Zakharova, con cui la sera del 5 giugno si è confrontato in videochiamata pur trovandosi a Mosca, con il palazzo del Cremlino alle spalle, affiancato da due russi tra i quali Vladimir Soloviev, propagandista principe dell’informatjia putiniana. Entrambi i conduttori sono stati investiti da accuse di eccessiva accondiscendenza verso gli intervistati. Ma sottoponendo le interviste a un’analisi testuale (e contestuale), si scopre che la realtà è più complessa. Come sempre.
Brindisi, che negli scontri in studio è solito contrastare con decisione gli ospiti attestati su posizioni critiche verso la Nato e l’Occidente, in questo caso ha scelto l’aplomb. Ma ha davvero scelto? È evidente a chiunque mastichi un po’ di retrobottega redazionale che per poter sentire in esclusiva un pezzo grosso come Lavrov, non si possa non rassicurare preventivamente l’interlocutore che la conversazione si svilupperà senza imboscate, con toni non accesi, su binari sostanzialmente prevedibili. Stiamo parlando del numero 2 della Russia di Putin, non di una seconda o terza fila. A testimoniarlo è la sostanza stessa del botta e risposta: le domande. “Il rischio di guerra mondiale è reale?”, “avete armi mai viste?”, “come risponde a Zelenskij dopo il lancio di missili durante la visita a Kiev del segretario generale Onu?”, “Zelenskij è un ostacolo alla pace?”, “è giustificato parlare di denazificazione a fronte di qualche migliaio di nazisti su 40 milioni di ucraini?”, “il ruolo dell’Italia?, “il ruolo degli Stati Uniti?”, “chi può portare la pace?”, “guerra del gas: cosa succede?”. Obbiettivamente, la traccia di base non metteva in difficoltà il ministro russo, che fra l’altro ha finora dimostrato di non essere un tipo facile a scomporsi. Brindisi non ha mancato di inserirsi nelle repliche, sia pur senza mai alzare la tensione. Lo ha fatto tre volte: quando ha chiesto di specificare di chi erano le affermazioni fatte da media italiani che sarebbero andate “oltre la buona etica giornalistica” (Lavrov: “non voglio approfondire qui”), quando ha fatto presente che il governo di Kiev sembra aver accantonato la richiesta di adesione alla Nato, e quando ha interrotto domandando più chiarezza su come e quando la Russia si fermerà, ovvero se solo con la resa dell’Ucraina. Poteva osare di più? Posta la linea di fondo di cui sopra, non molto (senza contare il fattore tempo, che un suo peso ce l’ha). Dove invece ha sorvolato troppo è stato sul punto che ha scatenato una canea di polemiche nei giorni seguenti, cioè quando Lavrov se ne è uscito dicendo che Zelenskij non è credibile nemmeno se sostiene di essere lui stesso ebreo, per controbattere alla tesi russa di dover denazificare il Paese con i cingolati (“Secondo me anche Hitler aveva origini ebraiche e da tempo il saggio popolo ebraico fa presente che i maggiori antisemiti sono proprio ebrei”). Brindisi si è poi difeso sostenendo che era “una sciocchezza talmente evidente” che ha lasciato correre. Più probabilmente non si aspettava di sentirne una così grossa, almeno sul piano evocativo, e sempre tenendo presente come tutto ciò che riguarda il tema “ebrei” sia un campo minato irto di tabù. L’ha invece incalzato alla fine, quando non ha ricevuto una soddisfacente risposta alla domanda sulla conclusione dei combattimenti, che in quei giorni qui da noi si ipotizzava, invero un po’ fantasiosamente, potesse coincidere con il 9 maggio, giornata di festeggiamenti in Russia per la vittoria sul nazismo. Lavrov ha avuto gioco facile nello spiegare che i comandi militari di Mosca non pianificano le operazioni sulla simbologia delle date. Stringi stringi, le notizie emerse dall’intervista sono state quest’ultima, la denuncia di campagna anti-russa da parte dell’ambasciatore in Italia Sergej Razov (ripetuta giusto ieri), e la sparata su Hitler ebreo (che in sede storiografica per la verità è stata dibattuta, ma qui era palese l’intenzione propagandistica). Il resto è stato una scontata reiterazione dei cavalli di battaglia della Russia, dai nazisti del Battaglione Azov alla strage di Bucha liquidata come “fake news al primo sguardo”. “Dichiarazioni deliranti”, come le ha successivamente definite la stessa Mediaset. Brindisi non ha avuto torto, tuttavia, nel rivendicare un fatto elementare: “Io non devo dichiarare guerra alla Russia, io devo fare il mio lavoro. Quello che più mi dispiace constatare è che quelli che parlano di Russia come di un paese autarchico, dove c'è la dittatura e dove c'è la censura sulla stampa, chiedono la censura su Lavrov”.
Con Giletti la musica è stata diversa. Non solo per la location con intenti da grandeur, lui con sfondo Cremlino (chissà che avranno pensato i corrispondenti e inviati Rai a Mosca richiamati in patria due mesi fa…), e la Zakharova collegata presumibilmente a non molta distanza in linea d’aria. Il domatore di Non è l’arena ha inteso imbastire il colloquio con un doppio registro: da un lato, ergersi a lucido e imparziale osservatore che dà atto alla controparte di disporre di sue ottime ragioni (lo ha fatto per ben 5 volte, incassando volentieri sugli errori passati dell’Occidente e azzardando perfino di dire che i bambini vengono ammazzati “dall’una e dall’altra parte”); dall’altro, assumere un atteggiamento più aggressivo, interrompendo spesso, anche se senza mai ribattere direttamente là dove l’addetta stampa governativa lo attaccava a muso duro accusandolo di ragionare “come fanno i bambini”, o di dar l’impressione di “essere atterrato su questo pianeta da una settimana”. Fedele al marchio dell’infotainment, del giornalismo-spettacolo, Giletti è riuscito così contemporaneamente a farsi incolpare di semi-connivenza con il nemico, il che fa brodo eccome, e di inscenare un battibecco continuo con la russa di turno, insistendo monomaniacalmente sul tasto della pace, di fermare le morti, di “stare al 2022”, nonostante le pur esistenti motivazioni di Putin. Quanto alla ciccia, è stato un gioco a rimpiattino, un dialogo fra sordi (“parla solo lei?”, “non credo di parlare solo io”) che ha solo confermato quanto i russi giudichino noi con lo stesso metro con cui noi giudichiamo loro alla rovescia: “vergognatevi!”, ha buttato lì a un certo punto la Zakharova riferendosi ai giornalisti nostrani (già tacciati di disonestà intellettuale da Lavrov con Brindisi). Positivo, bisogna dire, è stato lo sforzo gilettiano di allargare la vista citando la presenza russa in Siria e in Libia e ripescando il caso della Cecenia. Ma in questo Giletti soffre di un limite, se così vogliamo chiamarlo, diffuso in tutta la stampa, eccezion fatta per esperti specializzati come Luca Caracciolo e pochi altri: non possedere sufficienti cognizioni in materia. L’autogoal, quindi, non è tardato ad arrivare. Come quando si è inerpicato testardo sulle responsabilità, leggiadramente ammesse, di noi Occidente su di tutto un po’, sugli 8 anni passati in Donbass come sul bombardamento Nato di Belgrado fino al rifiuto americano di sedersi a un tavolo di pace, e ha ricevuto dalla Zakharova una lezioncina - non peregrina, va detto – sul dispettuccio a Lavrov, privato del canale aereo per la visita di quel giorno proprio a Belgrado, e sull’incapacità occidentale di “voltarsi indietro per non ripetere gli errori fatti, perché vi sentite al centro del mondo e invece non avere nessun diritto morale di insegnare agli altri come comportarsi”. L’impazienza del conduttore (“ma porca miseria!”) su come far finire ‘sta maledetta guerra, un ruggire che forse gli è costato il famoso malore, ha però sortito almeno un effetto concreto: al di là del solito ritornello su “denazificazione e demilitarizzazione dell’Ucraina”, la portavoce non ha fornito uno straccio di risposta reale sugli obbiettivi militari e politici del suo Paese. Prova che tutte le elucubrazioni in materia sono, appunto, elucubrazioni. Ma complessivamente, il tutto è stato puro show che non ha aggiunto nulla a quel che sapevamo già. Il malcelato sogno di Giletti, il quale naturalmente è troppo scafato per averci creduto anche solo un momento, era far scappare alla maestrina una frase o una mezza frase riappacificatrice, così da passare per il conciliatore catodico con la mano tesa al Cremlino che li stava parato dietro (il “palazzo di merda”, come l’ha apostrofato il direttore di Libero Alessandro Sallusti congedandosi indignato). Missione, ovviamente, fallita.