Italia, 2025. Il caso di Stefano Argentino è l’ennesima cartolina da incubo del nostro sistema giudiziario. Il 30enne, reo confesso del femminicidio di Sara Campanella, si è tolto la vita in carcere. Fine della storia? No. Perché adesso la sua famiglia, grazie a un cavillo, potrà chiedere un risarcimento allo Stato per “omessa vigilanza” da parte dell’amministrazione penitenziaria. E, contemporaneamente, la famiglia della vittima rischia di rimanere impantanata in lungaggini burocratiche per ottenere un risarcimento irrisorio. Tutto assurdo, no? La base giuridica è l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e devono mirare alla rieducazione del condannato. Tradotto: se un detenuto si suicida, soprattutto se era considerato a rischio, il carcere potrebbe essere ritenuto responsabile. E se lo è, paga lo Stato. Inoltre, con la morte di Argentino il procedimento penale si estingue. L’udienza del 10 settembre si terrà lo stesso, ma solo per il passaggio formale: il giudice, acquisito il certificato di morte, dichiarerà che “non si deve procedere per morte del reo”. Una formula burocratica che chiude ogni porta alla giustizia penale. E per i familiari di Sara? Qui arriva la beffa. Nessun risarcimento automatico, nessuna possibilità concreta di rivalersi sul patrimonio dell’imputato, inesistente, né su quello dei suoi parenti. L’unica, remota possibilità, è il fondo statale per le vittime di reati intenzionali violenti, che prevede un massimo di 50mila euro e una procedura lenta, complessa, gestita dalle Prefetture, con tempi che spesso si misurano in anni.

A Fanpage, Valerio de Gioia, magistrato e consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sul Femminicidio, chiarisce il quadro: per i parenti di Argentino la strada è chiara. Se si dimostra che il carcere non ha vigilato adeguatamente, per esempio ignorando segnali di intenti suicidi, scatta il diritto a un risarcimento. Non c’è un importo fisso: si valuta caso per caso, considerando età, attività lavorativa e altri parametri. Non è fantascienza: nel 2018 la Cassazione ha già condannato lo Stato in un caso simile, stabilendo che un detenuto “a rischio” non può essere lasciato senza osservazione mirata. Il legale del detenuto potrà citare in giudizio il Ministero della Giustizia e, se il tribunale darà ragione, lo Stato pagherà. A chi? Ai parenti dell’uomo che, per sua stessa ammissione, ha tolto la vita a Sara Campanella. Risultato: la famiglia della vittima dovrà accontentarsi, se tutto va bene, di un indennizzo statale ridotto e tardivo, intorno ai 50.000 euro, e per ottenerlo potrebbero passare diversi anni. Quella del colpevole, invece, potrebbe ricevere una cifra anche molto più alta, e in tempi più rapidi, se il giudice riconoscerà l’omessa vigilanza. Un paradosso che lascia un senso di assurdità e che rinnova una domanda che, purtroppo, ricorre nei casi eclatanti di cronaca nera: in questo Paese, tra chi uccide e chi muore, chi è davvero protetto dalla legge?

