Lo spot circola in Rete e su Youtube «Che fortuna ci sono tutte le regioni, tutte le osterie, i prodotti tipici». A parte che vivere in Italia non è una "fortuna", ma casomai comporta alcuni diritti e altri doveri, come è noto ad ogni cittadino, italiano o straniero, che si trovi a passare o sostare o risiedere sul territorio italiano. Ma il messaggio del disastroso copywriting dello spot di “Grand Tour Italia” strizza proprio l'occhio allo Ius Soli e allo Ius Scholae, ovvero alla cittadinanza per diritto di nascita sul suolo di una nazione, alludendo con tale sottotesto che tutto ciò sia solo dovuto un caso fortunato e un destino fortuito. - ripete come un mantra, illustrando l'offerta di vendita dell'attività commerciale - Che fortuna la bellezza dell’Italiada alcuni giorni ed è impregnato di ideologia woke: «Che fortuna vivere in Italia», proclama il pasciuto Patrizio Roversi mentre si muove come un turista negli spazi vuoti del centro commerciale, durante i giorni che precedono l'apertura d'inaugurazione. La comunicazione nel XXI secolo è facile a floppare, soprattutto quando si cavalca un’ideologia quale “reason why”, ovvero la ragione per l’acquisto, in uno spot pubblicitario. La prova documentale che gran parte del pubblico forse ricorda è dovuta al caso del noto spot woke della birra Bud, creato per vendere il prodotto Light nel mercato statunitense. Il testimonial era un'influencer trans e attivista lgbt dei social network americani e la storia finì tristemente con il ritiro dello spot, dopo che il ruspante “wasp” Kid Rock, aveva letteralmente smitragliato con un’arma semiautomatica le lattine di tale birra in uno scenario da redneck nel Sud della Sweet Home Alabama. Un bel boomerang mediatico, con risonanza mondiale. Anche in Italia pare ci sia oggi un caso simile: con il nuovo spot, in versioni da quindici secondi, trenta e, integrale, un minuto, che ha come protagonista il noto Patrizio Roversi. L'ex turista per caso si aggira tra gli spazi di “Gran Tour Italia”, il nuovo centro commerciale dedicato all'alimentazione, che nasce sulle ceneri del già fallito “Fico” di Bologna, creato dall'imprenditore Oscar Farinetti negli anni del Pd di Matteo Renzi e delle scarpe di Maria Elena Boschi alla Leopolda. L’ampio parco agroalimentare floppò miseramente, ma riapre il 5 settembre sotto nuove vesti e con un rinnovato progetto: è sempre un mall in provincia di Bologna, serve sempre a vendere cibo e pietanze, però ora è dedicato alle specialità italiane. Un po' come Eataly, altro ma fortunato progetto, sempre dell'imprenditore Oscar Farinetti dall’Emilia Romagna.
Ma è nella chiusa dello spot pubblicitario che la reclame di “Grand Tour Italia” cavalca in crescendo “le facili ideologie alla moda”, come cantava Lucio Battisti. Con una serie di concetti dell'ideologia woke e con un tentativo di traslarli dagli Usa alla realtà italiana tramite una, in realtà solo supposta, ironia. Il famoso senso di colpa che i bianchi dovrebbero provare, per impegnarsi attivamente a raggiungere un’uguaglianza tra le etnie: il famoso privilegio delle donne bianche e degli uomini bianchi, concetto nato alcuni anni or sono negli Usa e sviluppatosi nel mondo angloamericano. Anche se ti sforzi di non essere razzista, il campo visivo e il campo verbale della tua comunicazione aziendale, non mentono mai. Infatti lo spot promozionale si chiude con una raffica di stereotipi razzisti, che svelano una malcelata ignoranza culturale. Cose da very boomer, come direbbero oggi. Patrizio Roversi, pasciuto italiano bianco e ben vestito, nella chiusura dello spot brinda al bancone con un ragazzo nero, probabilmente africano, che è vestito con una semplice maglietta senza alcun logo o altro elemento caratterizzante e personalizzante: è un ragazzo nero e anonimo. Quando Roversi lo invita al brindisi e afferma la frase che è stata scritta nella sceneggiatura dello spot: «che fortuna vivere in Italia, e chi ha avuto tanta fortuna deve farsela perdonare». A quel punto il ragazzo di colore brinda col calice, in cui si vede un liquido giallo che si suppone essere succo di frutta, nonché afferma, con uno smaccato accento africano in lingua italiana: «Andhiamo a mangiare i dordelini». Un cin cin con tono nasale e con molto entusiasmo. Pochi secondi di chiusura, ma ripieni di stereotipi razzisti, in uno spot che invece vorrebbe essere progressista: un boomerang mediatico degno di nota. Già è presente nel campo visivo dello spot lo stereotipo dell'africano povero, tant'è ritratto con una semplice e anonima t-shirt. Mentre, seppur migrante, magari egli è un operaio specializzato di Dakar, che qui in Italia può anche arrivare a prendere 1800 euro in busta paga, stipendio che probabilmente è superiore a quello dei camerieri che servono ai tavoli di “Grand Tour Italia”. Secondo stereotipo lampante nel campo visivo è il momento del brindisi: il “bovero afrigano” con Patrizio Roversi è arricchito di pregiudizi dagli autori dello spot: il personaggio brinda infatti con un liquido che pare succo di frutta, alimentando agli occhi dello spettatore lo stereotipo che egli è musulmano e pertanto non deve brindare con il vino come può invece quel peccatore gaudente che è Patrizio Roversi. Il ragazzo africano nello spot non brinda nemmeno con l'acqua, ma è appositamente stato scelto un bicchiere pieno di vistoso liquido giallo, che ricorda appunto il succo d'arancia, proprio per alimentare lo stereotipo. Razzismo a sorsi, anche a sinistra.
Persino il campo verbale è agghiacciante: innanzitutto il tono e l'accento, smaccatamente africano, che in lingua italiana è uno stereotipo degno dei film del secolo scorso, ma anche il testo è aberrante: «andhiamo a mangiare i dordelini». Il ragazzo è illustrato allo spettatore dello spot quale africano e musulmano, ma qui include forse il sottotesto che i tortellini siano da egli ritenuti "Halal" e non "Haram" come altre tipologie di pietanze. Anche questa forzata forma di rispetto verso la religione altrui è in realtà uno stereotipo razzista e un bel contraccolpo mediatico: chi vede e ascolta lo spot, spera infatti per il ragazzo nero che i tortellini non abbiano un ripieno di maiale e che almeno non siano saltati nel burro e pancetta. Altrimenti è un peccato. Non mangiarli, beninteso. Il risultato dello spot, ovvero il sapore che lascia in bocca, ricorda infatti quelle vecchie pubblicità per ragazzi degli anni Ottanta, di cui probabilmente si è nutrita la creatività degli autori nel 2024, in cui anche il famoso giocattolo per bambini, ovvero il famoso bambolotto Cicciobello, "è anche un bellissimo angelo ne*ro". Ma ciò che maggiormente ricorda questo triste spot pubblicitario con Patrizio Roversi è il famoso cult cinematografico a episodi, di cui uno in Africa col mitologico Paolo Villaggio Dove vai in vacanza? del 1978. Che include anche il famosissimo episodio de Le vacanze intelligenti in cui Alberto Sordi fruttivendolo insieme alla consorte visita la Biennale di Venezia. L'episodio dall'emblematico titolo "Si, buana" è una parodia del racconto di Hemingway "La breve vita felice di Francis Macomber", più volte citato nel film, ed è la caricatura di una truffa orchestrata da alcuni italiani nel Continente Nero. Paolo Villaggio non è Fantozzi, ma Arturo: una guida turistica italiana per safari africani per turisti, organizzati con altri truffaldini italiani, tra cui anche Filini dove Paolo Villaggio si spaccia a turiste e turisti quale bianco afrikaan e grande esperto della Savana. Nel film è sostenuto da una spalla, un africano con cui condivide la comune malasorte: «Finse di capire il mio finto Swahili, si chiamava Cangoni, nato a Roma, per mancanza di lavoro emigrato da poco in Africa e, in servizio, il capo lo obbligava a parlare da ‘bovero ne*ro’». La sensazione che lascia negli occhi dello spettatore lo spot di “Il Grand Tour Italia” con Patrizio Roversi è pari all'anziano slogan del Cicciobello o al “dobo dobo”, piatto tipico a base di doppio sorcio, come illustra in romanesco Cangoni ad Arturo, che Paolo Villaggio è costretto a mangiare per dimostrare di essere amante dell'Africa. Magari proiettare di meno la facile ideologia alla moda e mostrare una visione più aggiornata e meno razzista dell'Italia e degli italiani, potrebbe servire ai creativi che hanno progettato questo spot per evitare clamorosi boomerang nella comunicazione futura. Come consiglio da due lire: il trascinante e coinvolgente: «Che je dico ar popolo», pronunciato dalla medaglia d'oro paraolimpica e romanesca, Rigivan Ganeshamoorhty, potrebbe forse aiutare ad assimilare il concetto.