È come la fabbrica del Duomo. Un modo di dire tipicamente milanese atto a indicare qualcosa di interminabile, tipo la tela di Penelope. Solo che nel caso della moglie di Ulisse, destinata a nuove nozze nel momento in cui avesse portato a termine il lenzuolo funebre di quello che a quel punto sarebbe stato indicato come il suo defunto marito, lontano da Itaca da troppo tempo, era proprio Penelope, nottetempo, a disfare la tela tessuta di giorno, nel caso di Milano il Duomo ha fatto tutto da solo, oltre cinquecento anni per essere portato a compimento, e ancora oggi, a dirla tutta, costantemente oggetto di cantieri. Del resto tutta Milano è piena di cantieri, ovunque. Ci sono i cantieri dei palazzi in costruzione, non è certo una novità che l’edilizia sia uno dei motori cittadini, anzi, forse il motore cittadino che l’attuale amministrazione ha avuto più a cuore. Ci sono i tanti, troppi cantieri di ristrutturazione figli del 110%, a volte lasciati in sospeso, immagino per questioni legate proprio ai vari ripensamenti a riguardo del governo, o per un improvviso fallimento dell’impresa, le banche a tenere il boccino in mano. Poi, ma forse questa è faccenda lievemente diversa, ci sono i miliardi di cantieri in strada, quelli per le modifiche dei marciapiedi, quasi sempre allargati, con gli angoli che diventano piazzole, le linee rette che si interrompono per fare spazio a pedane, ogni tanto qualche isola felice che ospita tavoli da picnic, in posti assolutamente impensabili, tavoli da pingpong, qualche altra stramberia, presto interverrà un qualche comitato di quartiere a colorare con pitture sgargianti l’asfalto. Ci sono quelli dovuti alla posa della fibra ottica, di nuove tubature, lavori per emergenze di vario tipo. Ogni strada, credo, è oggetto di un qualche piccolo intervento, in alcuni casi di interventi macroscopici che vanno avanti per mesi, a volte anche per anni. Abito nell’appartamento dal quale scrivo queste parole da cinque anni, poco più. In questi cinque anni non c’è stato un solo giorno che io non abbia visto, affacciandomi dalle finestre, un cantiere. Quasi sempre ne ho visti almeno quattro o cinque in contemporanea, si trattasse di cantieri relativi al rifacimento della piazza sottostante, della ristrutturazione dei palazzi vicini, degli interventi urgenti sulle tubature dell’acqua, una perdita di gas, qualche problema di cui ignoro la natura ai cavi elettrici o a quelli del telefono. Rumori assordanti, non certo una forma di inquinamento minore rispetto alle famose polveri sottili, di cui per altro non si parla più da prima del Covid, quando la città vedeva ciclicamente il traffico interrotto nei fine settimana, la domenica per la precisione, proprio per provare ad arginare lo sforamento dei numeri consentiti per la salute pubblica. Anche una discreta rottura di scatole per il traffico, sia quello privato che quello pubblico, i mezzi costretti spesso a fare giri viziosi per la chiusura, magari anche parziale e momentanea di una strada.
Al momento, ma credo che poco cambierebbe se tornassi indietro nel tempo di qualche giorno, o mi proiettassi fantascientificamente in avanti, forse anche di mesi, ho un palazzo in costruzione proprio davanti casa, un lavoro, dice il cartello posto sulle transenne che impediscono l’ingresso agli estranei, che andrà avanti per due anni, e in effetti non fatico a crederci. Poi ho un palazzo completamente impacchettato qualche numero civico più in là. Oltre che lavori in strada, della società che gestisce metropolitane e quindi il sistema idrico, uniti da un legame che onestamente fatico a comprendere, che occupa il marciapiede del mio palazzo nella sua interezza, sia dove abbiamo l’ingresso che girato l’angolo, cartelli mobili di divieto di sosta appoggiati in maniera disordinata lì, tra un monopattino e una bicicletta di quelle che si possano usare tramite apposite app a cui si è collegati la carta di credito. I nastri a strisce parallele bianche e rosse che solitamente vengono usati per circoscrivere zone pericolanti da poco tolte dal parchetto che si trova al centro della piazza a fianco al mio palazzo, per altro, lì dove un tempo c’erano alberi che la tromba d’aria che ha devastato Milano nello scorso luglio ha divelto, prontamente sostituiti dalla giunta più green del paese da nuovi fragili fuscelli, retti da strutture in legno e tubi larghi di quelli fatti di cerchi concentrici, modulabili. Uno spettacolo molto metropolitano, nell’insieme, e uso la parola metropolitano con una lieve sfumatura sarcastica, vista la tanto ventilata natura metropolitana dell’unica città europea d’Italia, questo recita il manuale d’istruzione di chiunque voglia maneggiare Milano, il tutto mentre è la mia città natale, Ancona, a fare le prove generali per fare il salto da piccola città di provincia, novantottomila abitanti, scesi sotto quota centomila da poco, nel mezzo di una regione che nell’insieme supera di poco il milione e mezzo a qualcosa di più grande. Perché se è vero, come sostiene qualche urbanista, che Milano non è solo Milano, cioè la città con un perimetro neanche troppo grande, suppergiù il medesimo proprio di Ancona, con un milione trecentomila abitanti, ma una città molto più ampia, che include anche tutti i comuni circostanti, i tre milioni di anime che ogni santo giorno si aggirano per la città vorranno pur dire qualcosa, una città che quindi parte dall’area di Magenta, a ovest, e si espande fino a Monza, a nord-est, con annessi Lodi, a sud, e tutta la cinta di Bresso e Cormano, a nord, è anche vero che questo sogno di trasformare il capoluogo lombardo in una sorta di Londra tricolore è miseramente fallita. È noto, infatti, che a metà degli anni Sessanta arrivò quella che viene chiamata la Grande Londra, una contea che annetteva oltre alla capitale inglese anche i trentadue (in realtà nel complesso sarebbero trentatré) borghi circostanti, facendo passare l’area metropolitana da oltre un chilometro e mezzo quadrato di estensione a oltre due chilometri e mezzi, e da poco meno di otto milioni di abitanti a più di quattordici milioni. A questo da tempo ha guardato Milano, finché Monza non ha chiesto e ottenuto di diventare provincia con la Brianza, dando un colpo mortale a queste aspirazioni, e con buona pace di quanti, penso al mio amico scrittore e architetto Gianni Biondillo, che guardava a una città metropolitana milanese anche più ampia che si estende da Torino fino a Venezia, e in giù fino a Bologna. Proprio in queste ore, e so che la cosa fa sorridere, appunto, il neosindaco di Ancona, Daniele Silvetti, primo sindaco di centrodestra del capoluogo marchigiano, sta parlando di Grande Ancona. In realtà ne parlava anche la sindaca precedente, quella Valeria Mancinelli a capo del comune per dieci anni e per qualche tempo divenuta piuttosto pop per aver vinto quel concorso simpatico che voleva premiare il “sindaco più amato al mondo”. Nell’idea di Silvetti la Grande Ancona dovrebbe essere una città metropolitana, così dice, che includa oltre il capoluogo anche Falconara Marittima, il confine tra le due città è labile, sono praticamente attaccate, seppur con identità distinte, e i tre comuni presenti con Ancona nel Conero, Camerano, Sirolo e Numana. Una città molto estesa, quindi, che comprenda anche il parco naturale che si estende a sud, con una popolazione che supererebbe i centocinquantamila abitanti. Silvetti fa notare ai giornali locali come da Bologna fino a Bari ci sia una totale assenza di grandi centri, anche se poi, in effetti, indica Pescara come eccezione al suo ragionamento, Pescara che proprio nel 2027 andrà a includere Spoltore e Montesilvano, per altro, aumentando non solo la propria estensione ma anche la sua già più elevata popolazione. Nel caso l’impresa riuscisse, ho sinceramente i miei dubbi e ogni qualvolta sento parlare di Grande Ancona un sorriso mi si stampa in volto, mi candido come primo Imperatore del Medio Adriatico, la richiesta fatta ormai oltre dieci anni fa di essere omaggiato dall’amministrazione comunale della Torre di Portonovo resta sempre valida, anzi, nel mentre il mio contributo a far conoscere Ancona fuori dal perimetro cittadino è indubbiamente aumentata, come anche la mia fama di scrittore anconetano. La Torre in questione, nome all’anagrafe Torre De Bosis, essendo la famiglia De Bosis titolare della medesima, erede di quel Lauro a sua volta scrittore, poeta, atleta, eroe e antifascista morto a soli trent’anni mentre emulava il volantinaggio aereo di D’Annunzio su Vienna, lui su Roma, famiglia che al momento l’ha convertita a B&B, è una torre di guardia e avvistamento posta sulla baia di Portonovo, costruita nel 1716.
Per ora torno a parlare di cantieri, perché in fondo è di questo che stavo parlando. Di cantieri e di vocazione metropolitana che ha lasciato spazio a una vocazione green decisamente radicale, quasi violenta. Perché tutte le modifiche urbanistiche cui ho fatto cenno guardano a tagliare fuori le auto e gli automobilisti, e perché, per dire, anche il palazzo che sta sorgendo di fronte al mio, come buona parte delle nuove costruzioni milanesi, fa vanto di una sostenibilità, tra giardini presenti sulle terrazze e una volontà ferrea nelle emissioni zero cui tutti, prima o poi, dovremo guardare. Guardare, questa è la parola chiave di questo mio scritto. Guardare e cantiere, anzi, due le parole chiave, che richiamano ovviamente alla mente la figura storicizzata dall’intellettuale bolognese Danilo Masotti e poi scippata da alcuni imprenditori alla ricerca di idee per i loro gadget, dell’umarell. L’umarell, lo dico per chi fosse poco pratico dei dialetti del nord Italia, sarebbe il pensionato, o meglio, la figura del pensionato con le braccia conserte dietro la schiena, schiena lievemente ricurva, intento a controllare con aria di questura e con un consiglio sempre sul punto di essere pronunciato per il capomastro, un cantiere. Una figura retorica, quindi, che però trova tante incarnazioni nelle nostre città, tante più in città dove i cantieri proliferano. Questo nonostante, notoriamente, Milano non sia una città per vecchi. Né per giovani, a dirla tutta, le tendine di Decathlon che fanno bella mostra di loro nella vicina, a me, piazza Leonardo da Vinci, di fronte alla sede principale del Politecnico degli Studi ne è forse la prova più evidente. L’idea che qui si lavori e si viva, in questo ordine preciso, comporta che una volta che si smetta di lavorare ci si sposti altrove, magari in quella riviera ligure dal clima più temperato, o facendo ritorno nella terra dalla quale si è partiti, nel mio caso, non fosse che non è previsto che io prima o poi vada in pensione, con gli intellettuali funziona così, proprio nella Grande Ancona. Non ho mai capito dove stia il fascino di star lì a guardare un cantiere. Ne ho uno a portata di sguardo, senza neanche il bisogno di uscire di casa, ma davvero fatico a capire. C’è un terreno, visto il clima di questo tempo, abbastanza tendente al fangoso. Ci sono delle macchine rumorosissime, atte a creare profonde voragini in quel terreno, tubi di varia foggia e lunghezza buttati in giro, operai che si muovono seguendo una coreografia che sembra piuttosto improvvisata. Ogni tanto, e questo fa sorridere, uno degli operai esce dal cantiere e spazza il marciapiede, coperto da detriti usciti da una escavatrice, giorni fa ho commesso l’errore di lasciar l’auto parcheggiata da quelle parti e sembrava avessi fatto il Camel Trophy. Per il resto è un cantiere, qualcosa di assai poco affascinante. Del resto c’è gente che si appassiona a guardare le corse di Formula 1 o a giocare a Padel, suppongo che il gusto abbia un forte peso riguardo al decidere cosa star lì a guardare. Magari, ma questo me lo dico da solo, per quella smania tutta contemporanea di non voler invecchiare, da una parte la tendenza al transumanesimo, dall’altra la paura della morte, sempre che l’uno esista senza l’altro, è perché non sono ancora così anziano da poter ambire al ruolo di pensionato, anche se ho i capelli che tendono al bianco, sono in quella fascia di età che un tempo avrebbe quasi portato alla pensione, va beh, fossi stato un dipendente pubblico in certi periodi sarei stato in pensione da oltre dieci anni, e soprattutto anche se sono nato nel Novecento, rientrando in buona parte di tutte quelle minchiate che Carlo Conti sciorina alla fine de I migliori anni della nostra vita, Noi che…
Non provo nessuna fascinazione nel vedere operai lavorare, tanto più operai lavorare a qualcosa che sarà comprensibile a occhio umano solo tra qualche mese, forse tra qualche anno. Ma anche fosse qualcosa di comprensibile, ci sono cantieri che stanno per terminare, o che implicano pochi giorni di lavoro, non trovo nessuna attrazione nello stare a guardare questo tipo di opere. Da uno che sguazza per mestiere e per passione nel mondo delle arti, non solo quelle figurative, ovvio, mi verrebbe quasi da dire che definirle opere mi suona forzato, ma so bene che così facendo finirei per essere bollato come radical chic, e Dio solo sa quanto chi si è inventato quel termine odiasse tanto questi quanto gli architetti, e quanto per altro oggi verrebbe indicato a sua volta come radical chic, coi suoi completi bianchi e quella pettinatura da dandy. Per altro, lo dico a mezza voce, come per non essere ascoltato, l’abitare non troppo lontano dal Politecnico, in un quartiere che quindi ospita anche architettura, fa sì che io conosca un numero elevatissimo di architetti, molti rimasti in zona proprio per averla frequentata durante gli anni universitari, ma giuro che nessuno di loro lavora in cantiere, anche questo vorrà pur dire qualcosa. Forse è anche una questione genetica, non ho memoria che mio nonno Mario, morto ultraottantenne quando io ero appena un adolescente, a metà degli anni Ottanta, lui che era nato nel 1897, si sia mai soffermato a guardare un cantiere, e dire che nel dopoguerra, lui di dopoguerra ne ha vissuti due, ma parlo di quello che ha visto Ancona letteralmente a pezzi, da ricostruire per i troppi bombardamenti subiti, e dire, appunto, che di cantieri ne avrà pur incrociati parecchi. Così come sono certo che mio padre, che a sua volta ha vissuto un dopoguerra, da bambino, e che oggi ha ottantasette anni, si sia mai messo a guardare come saliva su un palazzo, le braccia conserte dietro la schiena, pronto a dire agli operai che lo stanno tirando su storto. Forse perché, vado a memoria personale, quando era più giovane di me ora, ancora neanche cinquantenne, ha dovuto seguire, per interesse personale, il cantiere di quello che per qualche tempo sarebbe stato il palazzo dove avremmo abitati, in piazza Malatesta, un palazzo nuovo sorto al posto di quello dove abitavano i miei nonni paterni, appunto, reso inagibile non dai bombardamenti ma dal terremoto del 1972. Un cantiere a sua volta infinito, ci siamo entrati nel 1984, non solo a causa di lungaggini dell’impresa, ma soprattutto dell’ostruzionismo radicale da parte della Soprintendenza ai Beni Culturali, che voleva fermare tutto perché nello scavare le fondamenta si era scoperto un cimitero di epoca picena. Tutta Ancona ha reperti archeologici pronti a saltare fuori, città greca costruita sopra un villaggio piceno, basta fare una buca e salta fuori. Mica per caso nella nostra cantina, parlo della cantina dell’appartamento di quel palazzo, in piazza Errico Malatesta, avevamo il pavimento in vetro da cui si potevano osservare i resti di una tomba, con le ossa di una mamma vicino a quelli del suo bambino, ci avevano detto. Una scena abbastanza splatter, resti umani sotto scatolini contenenti vecchi numeri del Calcio Illustrato e le sdraie e l’ombrellone per il mare, lasciati lì in inverno, o volendo molto romantica, mamma e bambino che giacciono ancora insieme a distanza di millenni, a seconda di come la si voglia guardare. Di fatto mio padre ogni tanto, immagino, da adolescente non è che si fa molto caso a certi dettagli, sarà andato a guardare a che punto era il palazzo dove saremmo andati a vivere, magari anche immalinconito per sapere che quello dove era cresciuto, quando ancora tutti chiamavano piazza Malatesta il Campo della Mostra, perché lì il boia di Ancona, la cui casa è ancora visibile nella curva sottostante la cattedrale di San Ciriaco, sotto il colle del Guasco, esponeva i cadaveri di coloro che aveva giustiziato, campo della mostra, appunto, roba degna di Ballard, in effetti, non c’era più, sostituito da un palazzo in mattoni nel quale, per altro, avremmo vissuto neanche dieci anni, presto diretti in altra parte della città, Posatora, priva di nomi come Campo della Mostra o di riferimenti onomastici quali quelli a Errico Malatesta, da bravo anarchico rigorosamente con due erre nel nome.
Madonna di Vladimir. Mi hanno raccontato che un tempo un pittore russo regalò alla chiesa questa copia della Madonna di Vladimir, probabilmente fatta da lui. Incredibile! Trovare improvvisamente nella chiesa di un paese cattolico un’icona ortodossa, proprio nel momento in cui mi rammaricavo di non aver potuto pregare a Loreto… Non è un miracolo, questo?” Il film Nostalghia uscirà poi nel 1983, scritto dal regista con Guerra. Sarà il suo primo film da esule, il regime russo lo spingerà a chiedere addirittura agli USA di dargli asilo politico, scrivo queste parole proprio mentre sono in esilio a Milano, da ventisei anni, per altro, esilio dal quale solo il dono della Torre di Portonovo potrebbe spingermi a tornare. Il film precedente a Nostalghia, Stalker, era dell’anno precedente. Ispirato al romanzo Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadj e Boris Strugackij, punte di diamante insieme a Isaac Asimov e Stanislaw Lem della fantascienza di matrice russa, il film è una storia dal vago sapore fantascientifico che racconta di un viaggio alla ricerca di sé, sé in realtà incarnato da un luogo fisico, la Stanza, all’interno di una landa desolata e fuori dalla città chiamata La Zona. Un viaggio intrapreso da due viandanti, lo Scrittore, alla ricerca dell’ispirazione perduta, e il Professore, che ambisce al Nobel, accompagnati nella Zona da una guida, lo stalker del titolo, che però è piuttosto refrattario all’idea di entrare nella stanza che tutto sembra poter realizzare. Alla zona ha dedicato un libro Geoff Dyer, autore tra gli altri dell’iconico saggio sul jazz dal titolo Natura morta con custodia di sax. Anzi, il libro che si intitola Zona, tecnicamente, è sì dedicato alla zona, appunto, ma più nello specifico è dedicato al film Stalker, vera e propria ossessione estetica di Dyer, il sottotitolo “Un libro su un film su un viaggio verso una stanza” sta lì appunto come didascalia neanche troppo necessaria. Gli stalker, poi giuro che mi fermo e torno a parlare solo di cantieri e pensionati, nome adottati dagli abitanti della città morta di Chernobyl, quel che resta di Prypiat, in Ucraina, devastata dall’esplosione del reattore nucleare, è anche il nome che in Italia si sono dati i primi flaneur psicogeografici, a Roma, parte del Laboratorio di Arte Urbana che porta il medesimo nome. Di loro la Treccani dice: “Il Laboratorio d’arte urbana S. è un soggetto collettivo, composto da artisti e architetti, che compie ricerche e azioni sul territorio con particolare attenzione alle aree di margine e ai vuoti urbani in via di trasformazione. Attivo a Roma dal 1995, S. ha effettuato alcune azioni di 'transurbanza' attraversando a piedi le zone interstiziali di Roma, Milano, Torino, Parigi, Berlino e Miami, per indagare quelle parti di territorio urbano in continua trasformazione che il gruppo ha definito territori attuali nel manifesto pubblicato nel 1996”. Sul loro sito campeggia questa epigrafe: “La zona è forse un sistema molto complesso di insidie… non so cosa succede qui in assenza dell’uomo, ma non appena arriva qualcuno tutto comincia a muoversi… la zona in ogni momento è proprio come l’abbiamo creata noi, come il nostro stato d’animo… ma quello che succede, non dipende dalla Zona, dipende da noi - da Stalker, di A. Tarkovskij”. Tutto torna, esattamente come in quei girovagare a zonzo degli psicogeografi. Sono tornato a parlare di Ancona, volendo parlare di cantieri e di umarell. Ancona nella quale, stando a una credenza piuttosto radicata nei miei amici, specie quelli di infanzia, e anche in parte dei miei familiari, dovrei tornare proprio una volta andato ipoteticamente in pensione, ignorano tutti che farò la fine di Nanda Pivano, a girovagare per librerie, sempre che ce ne saranno ancora, e biblioteche piangendo per il mio non poter andare in pensione, la città di provincia col mare, la vita serena, l’aria buona, gli affetti familiari, la Torre di Portonovo finalmente mia. A Portonovo, oltre che la Torre De Bosis, prossimamente Torre Monina, c’è una chiesetta del millecento, ottimo esempio di tardo romanico, che è entrata nell’immaginario niente meno che del regista Andrej Tarkovskij. Nel suo libro Martirologio, uscito in Italia nel 2002 per le Edizioni della Meridiana si legge di un suo passaggio da quelle parti in compagnia di Tonino Guerra, col quale stava girando il nostro paese per cercare luoghi che lo ispirassero per il suo film Nostalghia. Entrato nella chiesetta in questione ebbe poi a scrivere, in Martirologio: “Oggi mi è successa una cosa straordinaria. Eravamo a Loreto, dove Franco Terilli ha pregato davanti all’immagine del suo santo patrono, uno dei defunti papi. A Loreto c’è una chiesa famosa (come a Lourdes) nel centro della quale sorge la casa, portata da Nazareth, dove è vissuto Gesù. Quando mi sono trovato nella Chiesa ho sentito che era un peccato che io non potessi pregare in una chiesa cattolica, non è che non potessi, ma non lo desideravo. È in qualche modo un ambiente estraneo. Dopodiché capitiamo per caso in un piccolo paesino in riva al mare, Portonovo, in un’antica chiesetta del X secolo. Sull’altare vedo all’improvviso un’immagine della
Guardare i cantieri non è faccenda da pensionati, ma da pensionati che vogliono guardare i cantieri, sia messo agli atti.