La notizia di questa mattina sugli orrori commessi nel carcere minorile Beccaria di Milano lascia tutti un po' smarriti. O forse no. Un bollettino raccapricciante. Secondo quanto emerso dalle indagini avviate a partire dal 2022 si sarebbero concretizzate violenze e torture in danno di giovani detenuti. Tredici sono gli agenti della polizia penitenziaria ammanettati e finiti in regime di custodia cautelare, otto quelli sospesi dall’esercizio dei pubblici uffici. La Procura della Repubblica ha contestato una serie di reati agli agenti della polizia penitenziaria, tra cui maltrattamenti, tortura, lesioni, falso ideologico e tentata violenza sessuale, tutti perpetrati ai danni di minori detenuti. Le accuse sono state supportate da prove raccolte tramite intercettazioni e telecamere installate nell’istituto. Quanto accaduto nell’istituto penitenziario milanese rappresenta una grave violazione dei diritti umani. Torture ed abusi che hanno superato di gran lunga il limite della disumanità e che non sono poi così lontani da quel che accade nel carcere di massima sicurezza a Guantanamo.
Il carcere in Italia, per espressa previsione costituzionale, deve tendere alla rieducazione del condannato. Ma non ad una (ri)educazione qualsiasi. Tanto meno ad una rieducazione alla violenza. Violenza con violenza, non è difficile comprenderlo, incentiva fino a favorire la recidiva. Tredici minorenni torturati e abusati. Una prigione “dei senza diritti”. Comunque la si voglia leggere, la coperta è corta. Perché è un dato incontrovertibile il fatto che gli agenti che picchiano e abusano dei detenuti minorenni abusano del loro potere. È chiaro che fisiologicamente esiste una struttura gerarchica in carcere, con i detenuti che si collocano al livello più basso e gli agenti della penitenziaria, insieme al personale preposto alla gestione, sono collocati al di sopra. Non potrebbe essere altrimenti perché funzioni tutto alla perfezione. Ma questo vale solo a livello di organizzazione, non di trattamento dei detenuti. Per questo ciò che è accaduto all’istituto Beccaria riflette una disuguaglianza di condizione in cui i detenuti sono vulnerabili ed inermi. Una sorta di sottocultura carceraria, che sperava di far leva sul silenzio, sulla segretezza e l’omertà. Per fortuna così non è stato. Le indagini sono andate avanti per due anni e hanno previsto l’installazione di telecamere di sorveglianza. Senza dubbio, gli agenti hanno agito mossi dal convincimento di restare impuniti anche per la natura chiusa dell’istituto chiamato carcere. E questo, purtroppo, non ha fatto altro che incoraggiare i loro comportamenti violenti. Un ciclo inarrestabile che non ha fatto altro che minare, oltre al sistema penitenziario, la personalità dei detenuti-vittima. È di qualche giorno fa la notizia dell’omicidio consumatosi all’interno di una cella nel carcere di Opera da parte di Domenico Massari, alias il killer del karaoke. L’uomo, che sta scontando l’ergastolo per aver freddato quattro anni fa a colpi di pistola l’ex moglie Deborah Ballesio in un locale di Savona, ha ucciso il compagno di cella Antonio Magrini per ragioni di spazio. Prima lo ha colpito alla testa con un oggetto e poi l’ha strangolato con la cintura dell’accappatoio.
Senza dubbio anche questo episodio accende nuovamente i fari su come possa davvero il carcere rieducare i suoi detenuti. Sembrerebbe, infatti, che nel nostro Paese questo sistema proprio non funzioni. Anche con riferimento al problema del sovraffollamento carcerario. In sostanza, Un meccanismo da riformare partendo dalla rieducazione e finendo con le torture. Non è più tollerabile accettare. Tutti siamo indignati, ma forse chi frequenta come me il carcere per lavoro non è stupito. Se Cesare Beccaria leggesse oggi i giornali, probabilmente, penserebbe che il suo teorema generale sia stato un inutile sforzo di civiltà.