Girano voci… Girano voci che Papa Benedetto XVI sapesse tutto del caso Emanuela Orlandi. Girano voci che, prima da Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, poi da Decano del collegio cardinalizio e poi persino da Papa, lui sapesse. Anzi, che abbia saputo e abbia taciuto sembra essere il leitmotiv della stampa italiana che in queste ore, dopo la decisione presa dalla magistratura vaticana di riaprire il caso. Certo il tempismo è veramente dei peggiori. Sembra quasi che, ora che Benedetto XVI è morto, finalmente la verità possa venire a galla. Un’immagine spiacevole che pare quasi alimentare la tesi di chi sostiene che Ratzinger non fosse poi così amato in Vaticano neanche in questi ultimi dieci anni. C’è chi associa la riapertura del caso alle recenti uscite di padre Georg Gänswein, segretario di Benedetto XVI per vent’anni e ora nuova patata bollente – si scrive – per Papa Francesco. Il pontefice, dopo l’udienza di ieri con il prefetto della Casa Pontificia, avrebbe lanciato un avvertimento: se continui a mettere zizzania tiro fuori tutte le sporcizie tue e di Benedetto XVI. Un atteggiamento ben poco coerente con l’autentico sentimento di amicizia che legava Bergoglio a Ratzinger, testimoniato da prefazioni ai libri del Papa Emerito e a pubblicazioni insieme.
Insomma, in tutte le versioni a uscirne male sarebbe Ratzinger, additato già in passato come cattivo della Chiesa, nemico della scienza e della modernità, occultatore di abusi sessuali, potente e arcigno, oscurantista. Un Papa disgraziato per una Chiesa in decadenza, tra scandali, soldi sporchi e, ovviamente, la sparizione di Emanuela Orlandi. Il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, ha commentato la notizia della riapertura del caso, dopo la battuta di arresto del 2015: «Io continuo a pensare che Ratzinger fosse a conoscenza dei fatti visto che all’epoca era pressappoco il braccio destro di Wojtyla. Eppure, non ha mai detto una parola di solidarietà su Emanuela, nonostante i tanti nostri appelli. Non ci ha mai ricevuto, in questa vicenda è stato un po’ pilatesco, nel senso che se ne è lavato le mani, io non sono mai riuscito ad avvicinarlo. Chissà che magari non abbia lasciato due righe per la famiglia, che arrivassero all’improvviso. Non si sa mai, magari».
Chiunque con un po’ di cuore non può che solidarizzare con il fratello di una vittima, giovanissima, intorno alla quale è stato costruito un muro di false piste e dichiarazioni di dubbia verità (spesso solo per finire sotto i riflettori). Tuttavia sarebbe proprio questa estrema convinzione a muovere i fili della condanna preventiva verso Benedetto XVI. Altro che “Santo subito”, dopo due giornate di ossequioso e insincero cordoglio, i giornali italiani, prendendo a prestito la rabbia e il dolore di un fratello, si scagliano contro la carcassa ancora calda della figura più rilevante per la storia della Chiesa degli ultimi cinquant’anni. A voler parlare del suo coinvolgimento con il caso Orlandi (e altri ben drammi ben più vasti in termini di portata, come quelli legati allo Ior), si potrebbero rileggere le pagine di Peccato originale di Gianluigi Nuzzi o l’intervista del 2017 a Piazzapulita del giornalista, in cui, in modo chiaro, si parla di una «rivoluzione fallita» di Benedetto XVI che, progettando di dimettersi, tentò di risolvere alcuni dei dossier più critici del tempo, tra cui anche quello di Emanuela Orlandi. Un presunto coinvolgimento, dunque, che dovrebbe deporre a favore del “Rottweiler di Dio”. Dice Nuzzi a Formigli: «Aveva cercato di risolvere i dossier più spinosi, di togliere le spine al suo successore». Aleggia comunque un grande “mah”.
Al di là della nota di merito di stampo machiavelliano che sarebbe da riconoscere a Benedetto, che optò per un silenzio stampa permanente sul caso Orlandi, quello che servirebbe, oggi, sarebbe un po’ di chiarezza narrativa. Potando l’albero mediatico del vampirismo ai danni di Pietro Orlandi e attenuando la predisposizione verso il sensazionalismo, cosa resta delle accuse a Benedetto XVI? Nulla. Non una prova, non un documento, non un elemento probante. Tuttavia non si è persa l’occasione, appena chiusa la bara, di rimproverare Ratzinger per omissione e omertà, disegnando intorno al Papa emerito un alone di mistero e malevolenza nei confronti della verità, termine non abusato da Benedetto XVI, che ha sempre saputo a cosa – a chi – riservarlo.
Viene da chiedersi, senza dietrologie, a chi dia fastidio ancora, post mortem, la figura di Benedetto XVI. Senza dubbio un protagonista cattolico di indubbia caratura culturale, di irrefutabile peso nell’ultimo mezzo secolo di vita accidentata della Chiesa cattolica. Al di là dei dissidi interni al Vaticano, si inizia a sentir puzza, come fu ai tempi dell’elezione, di vilipendio, stavolta di cadavere. Tutto, sia chiaro, nella forma del sempre seduttivo sciacallaggio culturale, che nulla a che fare con pale e picconi nei cimiteri – per quello ci vuole troppo coraggio – e che piuttosto guarda a penne e tastiere. Un po’ come l’articolo di Michela Murgia sul Dio bambino che ci evita la complessità, anche il recente pezzo di Tomaso Montanari su Il Fatto Quotidiano è infarcito di qualche riferimento pop (come Umberto Eco, o Hans Küng, tra i teologi dissidenti, mentre non si fanno nomi ben meno noti al pubblico italiano, come Matthew Fox) e di una giornalistica infarinata della biografia di Ratzinger (perché oltre mille pagine scritte dal documentatissimo Peter Seewald sono troppe se si vuole scrivere un articolo domani, o dopodomani). Per non parlare di MicroMega, e della sua campagna zoppicante contro Ratzinger, forse perché il numero uno della rivista, Paolo Flores D’Arcais, si sente ancora scottato dai dialoghi con l’allora Prefetto, dialetticamente dieci spanne sopra il Direttore.
Forse l’esasperato tentativo di “liberalizzare” o “socialistizzare” la Chiesa è ora più cogente che mai, perché la morte di un Papa emerito silente di tale levatura potrebbe portare, se non alla canonizzazione di una figura “eretica” per il nostro presente, alla sua affermazione più compiuta, quella di Dottore della Chiesa e, con questo, di nuova guida per una fede non compromessa con la vita sociale.