Nella calda e torrida estate, quando finalmente le piogge ci danno tregua, mentre i luoghi di villeggiatura si riempiono di turisti e le spiagge di gente da ogni dove, a pochi chilometri dalla costa italiana, e forse proprio da quelle spiagge, oltre la Sicilia e oltre Lampedusa, decine, centinaia, migliaia di persone salpano ogni giorno dalle coste libiche e tunisine, su imbarcazioni fatiscenti, per cercare di raggiungere noi, che per loro siamo l'America. Chi sono queste persone? Chi sono queste migliaia di anime in mezzo al mare e perché salpano rischiando la vita per venire qui? Da dove vengono? Ce lo racconta Fabrizio Spucches, fotografo e artista, originario di Catania, ma residente a Milano e ideatore del coraggioso progetto ‘NoWay!’. Si tratta di una mostra fotografica, attualmente aperta presso la Galleria Still in via Zamenhof 11 a Milano, in collaborazione con la Ong Mediterranea Saving Humans, il comune di Milano, quello di Rimini e molti altri partner, che racconta, attraverso la fotografia e una performance visiva, l’impossibile viaggio che affrontano migliaia di migranti, attraverso il Mar Mediterraneo, per sperare di raggiungere la costa europea e la libertà. Abbiamo visitato la mostra ed è stato lo stesso Fabrizio a raccontarci, fotogramma per fotogramma, alcune delle impossibili e impensabili storie che si celano dietro a quegli scatti. La prima cosa da specificare è un’ovvietà, ma proprio per questo estremamente importante: se migliaia di persone riescono, dopo svariati tentativi, a raggiungere le coste italiane, altrettanto sono anche quelle che non ce la fanno, o perché intercettate e rispedite indietro dalla guardia costiera libica, o perché, più semplicemente, rimangono disperse e annegano in mare, anche perché la maggior parte non sa nuotare, nell’indifferenza generale. La mostra è divisa in tre sezioni: Inferno, Purgatorio e Paradiso e nei prossimi mesi sarà proposta anche a Rimini e in Puglia. La prima sezione si apre con l’emblematica immagine di un ragazzo dalla pelle scura, Mamadou, che, avvolto in una coperta termica color oro, si regge incerto su uno scoglio un mezzo al mare, mentre tiene fra le mani una bandiera europea, simbolo per migliaia di migranti di salvezza, che però, è lacerata.
La mostra prosegue poi con diversi scatti, di cui alcuni molto emblematici, fra ragazze vittime della tratta della prostituzione in Kenya, nella sezione Chez Nous,le cui prestazioni costano solo 3 euro – dove Fabrizio ci racconta che 1.50 euro serve per pagare gli alloggi e il restante 1.50 per pagare i papponi, e qualcosa per sé – e ragazzi kenyoti nudi, che nell’estrema siccità, peggiorata anche dal cambiamento climatico, sono in lotta per accaparrarsi l’ultima risorsa d’acqua, nel vicino fiume in secca. Fabrizio ci racconta poi della Tunisia, dove è stato lo scorso anno e da cui ha dato vita al progetto. Lì, nei porti di Tunisi, Sfax e Zarzis, ha visto con i propri occhi la misera condizione umana. I migranti che arrivano sono migliaia, tanto che noi non ce li immaginiamo nemmeno, ma vivono alla stregua di schiavi, bloccati per anni, di solito almeno 2 o 3, per pagarsi il viaggio, in imbarcazioni fatiscenti, per raggiungere l’Europa. Arrivano tutti dall’Africa subsahariana: Mali, Burkina Faso, Ghana, Nigeria, Niger, Senegal, Kenya e a spingerli a partire sono povertà e guerre. A colpirci è la fotografia di una donna dalla carnagione scura e dai vistosi abiti africani. Accovacciata su un letto, circondata di fogli e biglietti, scopriamo essere una madre che ha perso il figlio, probabilmente annegato in mare, oltre 25 anni fa. Da allora la donna, che non si è mai rassegnata, manda ogni mese una lettera al figlio disperso. Una lettera che però rimarrà inevitabilmente a lei, mai recapitata.
La Tunisia rappresenta proprio la sezione del Purgatorio. Un eterno limbo che Fabrizio ha paragonato al gioco dell’oca: “È un po’ come una metafora il gioco dell’oca, perché nel gioco a volte capita che dopo aver fatto tutto il percorso, con tante peripezie, si arriva quasi al traguardo, alla salvezza, ma poi due caselle prima della vittoria si finisce nella casella dell’oca morta che riporta indietro, al punto di partenza.” Così è anche per loro, per queste migliaia di ragazzi, che per noi sono solo un numero, senza nomi e senza volto, come ci ha raccontato poi lo stesso Fabrizio nel corso della nostra intervista. A volte riescono a raggiungere l’Europa, a volte no. La sezione del Paradiso è dedicata proprio a questo, ma la realtà non è poi così rosea nemmeno qui. Alcuni ragazzi finiscono a fare i braccianti, vittime del caporalato, a raccogliere pomodori, angurie e seguire la vendemmia, altri invece finiscono nei famosi Cpr (Centri di Permanenza per il Rimpatrio), come quello di via Corelli, a Milano, o come quello che sta per essere costruito in Albania. Altre foto sono invece state fatte a Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, un ex Centro per l’Accoglienza dove oggi c’è una “steppa di baracche di legno, di amianto e dove vanno i più poveri tra i poveri”, dove, per avere l’energia di lavorare nei campi, molti prendono anche un farmaco anestetico, che solitamente si somministra a chi deve subire un’amputazione e che diventa l’unico modo per resistere ai ritmi di lavoro, anche se crea, ovviamente, dipendenza. Recentemente abbiamo sentito che, grazie al governo Meloni gli sbarchi sarebbero diminuiti, ma qual è la verità? “Col cavolo che sono diminuiti”. Ci dice Fabrizio, che da una parte spiega che le partenze sono diminuite per le numerose piogge della scorsa primavera, ma dall’altra evidenzia come i numeri siano inferiori solo perché è proprio il governo Meloni a pagare i tunisini per fermare gli sbarchi. Il fatto che è fermandoli non si risolve alcun problema, perché i migranti sono migliaia e proveranno a partire una seconda, una terza e una quarta volta, prima di sbarcare sulla nostra costa o, se più sfortunati, trovare la morte in mare.
A raccontarci tutti i dettagli di questo coraggiosissimo progetto, che dall’11 giugno diventa anche un libro – No Way! (NFC Edizioni) – una lunga intervista con Fabrizio, che lancia un chiaro messaggio di denuncia, contro l’ipocrisia, l’indifferenza delle istituzioni, della politica e dell’Unione Europea. “Non penso che questo risolverà il problema, perché so che non sarà così. Ma mi interessa fornire una testimonianza, e chissà, magari fra qualche centinaio di anni – speriamo prima – servirà a dimostrare quanto eravamo incivili.”
Fabrizio, come nasce l'idea del progetto ‘NoWay!’? Con chi è stato fatto?
Il progetto è fatto in collaborazione con Mediterranea Saving Humans e la galleria Still di Milano, con la curatela di Dennis Curti. È nato nell'estate dell'anno scorso perché avevo visto su Repubblica un articolo che parlava degli obitori di Sfax, che è una città portuale in Tunisia, e si diceva che in quel periodo gli obitori erano diventati saturi, strabordavano di cadaveri. Questa notizia mi ha scosso, perché mi ero reso conto che, pur essendo io una persona sensibile al tema, mi ero anche io abituato a questo, come una sorta di assuefazione e mi ha dato molto fastidio. Ci abituiamo e ci anestetizziamo di fronte a queste notizie da anni, e ancora non c’è una soluzione. Allora ho pensato di partire per la Tunisia e documentare quello che succede alle persone che partono e transino lì, e documentare soprattutto la loro condizione umana. Così ho contattato Mediterranea e poi anche Enrico Dal Buono, che ha scritto i testi.
Di cosa parlano i testi?
Si parla di un naufragio ovviamente, ispirato a un fatto tragico realmente accaduto il 15 marzo di quest’anno. Non si può fare una classifica delle tragedie, però questo fu particolarmente tragico perché partirono in 75, dalle coste della Libia, ma morirono in 50. Di solito quando partono, queste persone sono dotate di cellulari con il Gps, con cui mandano quello che si chiama ‘Alarm phone’ per chiedere aiuto alle navi di salvataggio o alla guardia costiera. Ma in questo caso, come in altri, l’allarme venne ignorato. Andarono in avaria, ma l’allarme venne ignorato per sette giorni e sette notti, e la cosa peggiore è che i 25 sopravvissuti furono testimoni delle morti dei loro amici e compagni di viaggio, che morirono uno a uno. Allora fece scalpore la notizia di una madre che morì col figlio neonato… Enrico ha trovato un escamotage, scrivendo la storia di un naufragio, ma ‘al contrario’, ovvero si parla di un figlio che rientra nel grembo materno, proprio pensando a questa madre e al suo bambino.
Tu quando sei partito?
Per la Tunisia sono partito l’estate scorsa, però l’idea della performance è nata dopo questi fatti del 15 marzo. Di fronte a queste notizie mi sono detto: ma davvero nemmeno questo ci scuote più? Siamo diventati totalmente insensibili.
C’è una sezione di fotografie anche dalla Kenya. Lì invece quando sei stato?
Quello fu un altro viaggio e alcune delle fotografie sono anche in questo progetto, come quelle delle ragazze che praticano la prostituzione a 3 euro a prestazione e i ragazzi invece, nudi, cercano di sopravvivere. In particolare, ci sono alcune foto di due guerrieri che cercano di difendere la poca acqua rimasta nel fiume. Lì c’è una vera e propria lotta per la sopravvivenza e la situazione è molto difficile, anche per l’ecosistema, a causa della siccità.
In Tunisia quanto tempo ti sei fermato e dove sei stato? Qual è lo scopo del progetto?
Un mese. Sono passato dai principali porti: Tunisi, Sfax e Zarzis. Poi come ho detto, per il progetto, dopo quella notizia mi sono vergognato per la generale anestesia e insensibilità che aveva colpito persino me. Non penso che questo risolverà il problema, perché so che non sarà così. Ma mi interessa fornire una testimonianza, e chissà, magari fra qualche centinaio di anni – speriamo prima – servirà a dimostrare quanto eravamo incivili.
In Tunisia hai incontrato migliaia di persone. Di che nazionalità sono i migranti che transitano lì e per quali ragioni partono?
Gran parte vengono dai Paesi dell’Africa subsahariana: Mali, Burkina Faso, Ghana, Nigeria, Niger, Senegal, Kenya… I motivi principali per cui partono sono la povertà, le guerre, le guerriglie, anche se adesso si è aggiunto anche il cambiamento climatico che è devastante, per la siccità, oltre alla guerra in Ucraina. Spesso si è detto che l’Ucraina è considerata come il granaio del mondo, e ci sono Paesi come il Senegal dove fino all’80% di fabbisogno di grano arriva dall’Ucraina. In questi due anni di guerra il grano è rimasto bloccato, ci sono stati ricatti e questo non fa che peggiorare la situazione in alcuni Paesi africani, per cui le persone non hanno scelta e decidono di partire.
Dalla nostra prospettiva sembra impensabile ci possa essere un collegamento fra la guerra in Ucraina e la migrazione nel Mediterraneo dall’Africa subsahariana
Sì, ma è così. Anzi, su questo ho fatto anche un altro progetto nel 2022 che si chiama The Last Drop. Quando è scoppiata la guerra a febbraio, sono andato in Ucraina e poi in Kenya. Avevo fatto un’altra mostra mettendo in rapporto le due situazioni.
Qual è stata la situazione più pericolosa o che ti ha messo più in difficoltà nei tuoi viaggi, in Africa e non solo?
Una situazione molto particolare l’ho vissuta in Kenya. L’ho raccontata recentemente in un podcast. Quando ero lì, nella contea di Isiolo, mi ero trovato nella strada dedicata alla prostituzione. Per il mio reportage avevo deciso di affittare una camera: avevo cambiato le luci per fare le foto e fotografavo le ragazze. Molte di loro inizialmente facevano resistenza, ma io come sempre avevo un budget da destinare a ogni foto e quindi si è sparsa la voce. Avevo budget per 12-13 foto al massimo e quando ero arrivato alla decima, uscendo dalla stanza avevo visto che si era creta una piccola coda, c’era un gruppo di prostitute che insisteva per farsi fotografare, ma io non potevo retribuire tante foto e avevo dovuto fare una selezione, cosa che aveva indisposto le ragazze. Così quelle che furono escluse chiamarono una specie di ‘matrona’, che definire cattiva, sarebbe un complimento. Era simile alla strega della Sirenetta, Ursula, viola, grassa, brutta e cattiva, e iniziò a farmi violenza psicologica. Mi portò in un posto e dopo un po’ di discussioni mi disse: “Dammi 50 euro e vattene”. Andammo insieme al bancomat, ma mentre stavo prelevando arrivò una camionetta della polizia con i kalashnikov. Mi presero e mi portarono al commissariato. Era tardi, già oltre mezzanotte, e iniziarono a farmi il classico interrogatorio, con la luce puntata. Presero il mio passaporto e lo buttarono via…
Non hai avuto paura di rimanere bloccato lì ‘per sempre’?
Sì, però c’era un qualcosa, una sentinella che mi suggeriva che si poteva trattare. Che tutto si sarebbe risolto pagando. La mia preoccupazione principale in realtà era quella di perdere le foto. Comunque, dopo ore di interrogatorio e minacce, io non avevo mai proposto dei soldi per non essere accusato di corruzione, ma uno dei poliziotti mi chiese: ‘Qual è per la soluzione?’ e io risposi ‘Faccio il fotografo, se volete posso farvi una bella foto di gruppo e regalarvela’. Lui si mise a ridere, ma lì capii che si poteva trattare. All’inizio mi propose 20.000 euro, ma io risposi che non li avevo ‘You can put me in jail and eat the key’. Lui si mise a ridere e alla fine arrivammo a circa 2000 euro. Io ne prelevai 1500, li convinsi a portarmi in camera, nell’hotel, al sicuro, dove pensavo di avere altri soldi, ma avevo solo 15 euro in realtà. Loro si stavano indispettendo e in tutto questo avevano guardato le mie foto, quelle delle prostitute. Durante l’interrogatorio se le erano passate, ma non capivano l’intento del reportage, per loro era pornografia e quindi mi dissero che mi avrebbero lasciato andare, ma che avrei dovuto cancellare tutte le foto. Lì mi sentii davvero impotente, stavo per crollare ed ero pronto a prelevare altri soldi, ma successe una cosa inaspettata: la macchina fotografica fece un bip e si spense. Io presi subito la palla al balzo e ribaltai la situazione: dissi che mi avevano rotto la macchina fotografica, che costava tantissimo, che era la mia ragione di vita… E insomma, alla fine mi lasciarono andare. E le foto ci sono ancora, per fortuna.
Il progetto ‘NoWay!’ ha un chiaro senso di denuncia di una situazione tragica che si consuma nel Mediterraneo. Vi siete mai rivolti direttamente a qualche autorità o istituzione? Qualcuno vi ha mai risposto in modo positivo o negativo?
Sì. Negativo. Abbiamo ricevuto solo porte chiuse. Non ho mai fatto un progetto con così tante porte chiuse. E porti chiusi. (sorride, ironico).
Davvero?
Sì, zero. Abbiamo fatto tutto da soli, con il supporto di Mediterranea. Questa campagna serve anche per fare una raccolta fondi per provare ad aiutarli, visto che salvano vite in mare. Questo infatti è anche il loro slogan: Prima si salva, poi si discute. Poi la galleria Still ha finanziato la produzione della mostra.
Non avete pensato di rivolgervi a qualche ministro o politico che si occupa di questo?
Ma c’è la Meloni al governo… Non posso fare nomi, però ci siamo rivolti a istituzioni e aziende. Da tante parti abbiamo ricevuto solamente porte chiuse per via dell'aria politica che c’è in Italia in questo momento. È un'aria di destra, quindi il progetto ha entusiasmato tutti, ma alla fine non potevano metterci la faccia. Questa cosa mi ha sorpreso tanto, non credevo che fosse così condizionante.
Tra l’altro a proposito di Giorgia Meloni: sia lei in campagna elettorale, prima di salire al governo, che Salvini nel 2018, hanno invocato spesso il cosiddetto ‘blocco navale’. Tu che hai visto la situazione in mare con i tuoi occhi, pensi sia realmente una cosa fattibile?
Impossibile. È una situazione che non possiamo bloccare, neanche con le cannonate. In particolare, ora il problema delle migrazioni dovute ai cambiamenti climatici è sempre maggiore e ci travolgerà. E poi in un certo senso abbiamo bisogno di queste persone: abbiamo il calo demografico, molti italiani non vogliono più fare alcuni lavori difficili, per cui abbiamo bisogno di nuove energie, nuovi stimoli e nuova cultura. Invece li blocchiamo. Ma il blocco non risolve il problema, lo ingigantisce. Bisogna aprire il dialogo.
C’è una parte di colpa nei governi occidentali ed europei di tutto ciò? Perché non si parla solo di Italia, ma anche di tutta l’Unione Europea
Sì, infatti inizialmente l'immagine della campagna era quella di questo ragazzo, Mamadou, che si vede sulle foto e nel video della performance, con una bandiera italiana. Poi però abbiamo deciso di usare la bandiera europea, perché è giusto che il problema venga affrontato a livello globale. Non che gli altri Paesi pensino che devono essere solo Italia, Spagna, Grecia e Malta a gestire il tutto. Questa situazione andrebbe affrontata politicamente, dalla Comunità europea e la storia ci insegna che tutte le più grandi nazioni in passato hanno approfittato delle migrazioni. La Francia è stata accogliente, l’America lo è stata anche con noi italiani.
Il progetto solleva un tema che si discute da anni, dunque è una forma di denuncia, verso cui però c’è molta indifferenza. Come ti spieghi questa indifferenza italiana e in generale occidentale?
Forse gradualmente, anche con i telefoni, con Instagram, con i social, ci siamo abituati a vivere e accettare la realtà come una cosa astratta che non ci riguarda. E come accennato, è successo così anche a me. Tutto viene filtrato dalla comunicazione, per cui si abitua, ma così si diventa complici, inconsciamente.
Hai parlato della Tunisia, leggo sul progetto che anche solo nell’ultimo anno la Libia, ovviamente coinvolta nella tratta, ha rimandato indietro oltre 4000 persone. Come agiscono i libici verso i migranti?
In Tunisia c’è un governo, un presidente, e lì i migranti lavorano. Vengono sfruttati al massimo e rimangono bloccati per almeno 2-3 anni prima di partire via mare, ma lavorano. In Libia invece è molto peggio, perché praticamente regna l’anarchia. La Libia è l’inferno assoluto: oltre alla prigionia ci sono pestaggi, violenze, anche violenze sessuali. C’è anche questa pratica abominevole di prendere i cellulari dei migranti, picchiarli, torturarli e riprendere il tutto, per poi mandare i filmati ai genitori per ricattarli, facendosi mandare tutti i loro pochi risparmi. C’è anche una pagina su Instagram @refugeesinLibya che mostra i fatti, così come sono. Ora anche in Tunisia si sta presentando un problema in realtà. La Tunisia è sempre stata un Paese piuttosto accogliente, ma da un po’ si sta cercando di alimentare una forma di razzismo dei tunisini verso gli africani. Non riguarda tutti i tunisini, che secondo me rimangono un popolo abbastanza aperto, come lo sono anche la maggior parte degli italiani, ma succede. Però in Tunisia c’è diciamo questo sistema di ‘limbo’, dove i migranti lavorano (schiavizzati) e poi dopo tanto riescono a partire.
Come fanno i ragazzi che arrivano dall’Africa subsahariana a entrare in contatto con gli scafisti? Su che imbarcazioni viaggiano?
In Tunisia c’è una rete nascosta, ma in realtà molto evidente. Banalmente prendono un taxi – i taxi costano pochissimo – e già dal primo approccio i tassisti possono metterli in contatto. Le persone che partono sono centinaia di migliaia, ma molti in realtà restano bloccati lì. Io sono stato a Zarsis, per esempio, che è uno dei porti tunisini da cui partono e ho visto i pescatori, che però oltre al pesce, trovano spesso resti umani… I mezzi su cui viaggiano sono i gommoni, dove stanno minimo in 40, oppure ci sono delle imbarcazioni che costano ancora meno. Sono delle strutture di ferro, molto pericolose e fatiscenti, che i migranti stessi costruiscono. Vengono sfruttati per la costruzione e vedono con i loro occhi la distruzione.
Alcuni, se sono fortunati, poi arrivano qui in Italia, ma cosa succede a chi rimane lì?
Quando partono non hanno garanzie. Alcuni nel tragitto perdono i documenti e l’identità. Per quelli che muoiono in Tunisia, per esempio, ci sono i ‘Cimiteri degli sconosciuti’ - la Tunisia ne è piena – dove ci sono alcune mattonelle, che simboleggiano le persone…
Come in guerra praticamente, no?
Sì. Ci sono delle lapidi improvvisate, che sono dei numeri. Ogni persona diventa un numero. Un attivista di Mediterranea mi ha anche raccontato che molte persone quando muoiono in mare, prima di annegare, poco prima di finire sott’acqua, l’ultima cosa che fanno è gridare il proprio nome verso il cielo. Lo fanno perché nella loro cultura, nella loro religione, serve a salvare loro l’anima. Quindi gridano il proprio nome, prima di diventare solo un numero.
E per chi invece arriva qui? Attraverso le fotografie racconti che molti finiscono a fare i braccianti, vivono in tendopoli e baracche, altri invece, sappiamo finiscono nei Cpr (Centro di Permanenza per i Rimpatri). Hai conosciuto qualcuno che invece ‘ce l’ha fatta’? Una storia a lieto fine?
È una bella domanda, ma no. Non ho mai incontrato in questo progetto qualcuno che ce l’abbia davvero fatta. Non sono tutti finiti nei Cpr, ma tutte le persone che ho incontrato, comunque, non hanno ancora risolto la loro situazione. C’è per esempio una ragazza, fra le foto, del Mali, che studiava moda e a cui piacerebbe occuparsi di moda, ma non sa assolutamente come fare. Per fortuna molti dei ragazzi, almeno qui a Milano, ma non solo, una volta alla settimana frequentano la scuola di Penny Wirton, che a Milano e in altre città fornisce lezioni di italiano, su base volontaria, per permettere loro di integrarsi. Sono tutte persone che cercano di mettere una pietra sopra a tutti gli abusi vissuti e subiti e non vogliono ricordare. Infatti sono stati estremamente generosi con noi, nel farsi fotografare.
Nel comunicato c’è anche una frase di Ghali: “Sostengo Mediterranea Saving Humans perché la gente muore in mare e non voglio restare indifferente”. Lui conosce e supporta il vostro progetto?
Ghali supporta Mediterranea da tanti anni, ha anche comprato delle barche ed è molto attento. È bello che ci siano realtà diverse da quelle giornalistiche, realtà culturali, legate al mondo della musica e del cinema che si interessano di questo tema. Al cinema abbiamo visto anche il film di Garrone, Io capitano (2023), ed è l’unico modo per cercare di educare. Speriamo Ghali ci supporti anche in questo.
Cosa pensi della proposta di Giorgia Meloni di far passare i migranti dall’Albania? Non è chiaro fino a che punto possa essere una soluzione
La situazione dell’Albania è paradossale. Perché proprio l’Albania è un Paese che abbiamo aiutato tantissimo negli anni ’90. Loro hanno aiutato noi a crescere e mi chiedo con quale dignità gli albanesi possano alimentare questi Cpr, proprio loro che hanno vissuto una situazione simile fino all’altro ieri.
Oltre al progetto fotografico è appena uscito anche il libro
Sì, è un libro con un centinaio di scatti, ma ci tengo particolarmente perché so che il progetto in sé non cambierà nulla, ma il ro invece è una cosa che rimane. Così in futuro avremo una testimonianza. Forse un cambiamento avverrà, ma il processo è lungo. Un processo che richiederà ancora tanto tempo e tanti morti, tante tragedie e sofferenze, ma pian piano accadrà. Malgrado tutto rimango ottimista.
Oltre a questo progetto, ‘NoWay!’, mi hai parlato anche di ‘The Last Drop’, fra guerra in Ucraina e Africa subsahariana. Sono progetti irriverenti, non hai paura di minacce? Hai mai ricevuto intimidazioni o critiche? Magari da qualche politico come Salvini, che ha parlato spesso di questi temi
No, purtroppo no. Ma se ci fossero le cavalcherei, perché la censura e le minacce servono a questo: a ingigantire l’interesse mediatico. Poi è tutto una questione di soldi: se ci pensi, un Rolex può viaggiare liberamente in tutti i Paesi del mondo, un essere umano no. Finché non ci sarà la libera circolazione dell'essere umano, non saremo ancora una società civile.