“La mia amata città italiana si è trasformata in un inferno per i turisti. Dobbiamo davvero viaggiare in questo modo?”. È questo il titolo dell'articolo, o meglio dell'op-ed, pubblicato dalla giornalista italiana Ilaria Maria Sala sul New York Times. Il riferimento è Bologna, città natale dell'autrice del pezzo, messa alla berlina per essersi trasformata in un inferno per turisti. La tesi è semplice: una decina di anni fa – quando stavamo tutti meglio, o almeno così continuiamo a pensare – Bologna era conosciuta per essere una roccaforte universitaria, calamita di studenti, scapigliati, intellettuali più o meno definibili tali, artisti eccetera, eccetera, mentre adesso, quella stessa Bologna, è diventata una sorta di parco giochi a uso e consumo del viaggiatore lampo di turno. La critica di fondo (non la prima arrivata nei confronti dell'Italia da una testata straniera) è giusta. Questo, del resto, non è altro che l'effetto dell'overtourism, il turismo di massa che, per dinamiche mediatiche ancora da chiarire, mette nel mirino una città, la travolge inviando i suoi adepti e finisce per fagocitarla. Ok, Bologna è arrivata alla seconda fase di un processo difficilmente arginabile (a meno di non voler cambiare radicalmente le regole del gioco turistico). Ma è davvero un “inferno”? Al massimo forse un purgatorio, ma anche qui ci sarebbero seri dubbi. E, ancora, se Bologna è un inferno, Venezia, Firenze e Roma come potrebbero essere definite?
Insomma, che cos'è Bologna oggi secondo il Nyt? Basta leggere la descrizione dell'autrice: è “sulla buona strada per diventare una città turistica a tutti gli effetti”, da evitare assolutamente. Colpa, se così possiamo dire, delle compagnie aeree low cost che consentono a masse di viaggiatori di arrivare facilmente all'ombra delle due Torri; dei social network che, di tanto in tanto, creano tendenze dove prima c'era il deserto; e, infine, pure degli affitti a breve termine che hanno spinto gli studenti a lasciare il cuore cittadino ai turisti affamati di selfie e visite lampo. Le critiche sono corrette, però bisognerebbe andare più a fondo, visto che questi sono proprio gli effetti del mondo globalizzato tanto decantato dal Nyt e dai suoi lettori. Se si esalta quel modello, in sostanza, bisognerebbe esser disposti ad accettarne anche i lati negativi. Non manca, nell'op-ed Usa, una nota di colore sulla mortadella: si critica, nello specifico, il consumo eccessivo di un affettato tipico di Bologna. Detto altrimenti, al posto di negozi tradizionali sono spuntati locali che vendono, in maniera piuttosto rudimentale, piatti locali come se fossero hamburger del McDonald's.
Arriviamo quindi alla domanda insita nel titolo dell'articolo: dobbiamo davvero viaggiare in questo modo? No, non è un obbligo. Possiamo viaggiare come crediamo sia più opportuno farlo. Solo che, se non abbiamo il piacere di ritrovarci a fare a gomitate con migliaia di americani nei marciapiedi di Bologna; se non vogliamo mangiare tortellini take away come fossero chicken McNuggets; se non vogliamo che gli affitti brevi svuotino le città; se non vogliamo tutto ciò, allora è necessario sposare un modello alternativo a quello incarnato dallo stesso Nyt. Un giornale che, di fatto, ha sempre rispecchiato il trionfo del capitalismo nel mondo, salvo poi versare lacrime di coccodrillo per le conseguenze probabilmente non preventivate a dovere. Come detto, l'editoriale della giornalista Sala resta però un valido spunto di riflessione per molteplici tematiche. Una su tutte: quella degli affitti brevi. Solo che funziona così ovunque, nelle grandi città italiane, e altrove è pure peggio. Magari Bologna si è soltanto adattata a una doppia tendenza, quella dell'overtourism mista alla gentrificazione del suo centro urbano, che non sarebbe mai riuscita a contrastare...