Il grande gioco del potere finanziario italiano è ripartito, ma non assomiglia più alle vecchie concertazioni tra i soliti noti. Quel che emerge dal risiko bancario è che siamo di fronte a una lotta vera, fatta di numeri e muscoli, in cui nessuno si fida di nessuno e i sorrisi di facciata valgono meno di uno zero virgola nei registri azionari. Al centro del ring c’è Mediobanca, che vuole dire addio a Generali con un’ops su Banca Generali che ha l’aria di un’operazione chirurgica, ma il sapore di una vendetta strategica. L’assemblea è imminente, la partecipazione attesa è da record – potrebbe superare l’80 per cento del capitale – e ogni singolo voto pesa. I fondi americani, come sempre, si sono già schierati con l’ad Alberto Nagel, mentre Delfin, Edizione e Caltagirone – azionisti pesanti – tacciono o fanno sapere che “valuteranno”. Tradotto: si tengono pronti a tirare il freno se la direzione non li convince. Mediolanum decide in extremis. Intanto, si contano le briciole: anche lo 0,15 per cento di un fondo può diventare ago della bilancia. E questa non è una buona notizia per chi pensava di risolverla con una serie di rapide strette di mano.

E mentre il fronte Mediobanca brucia, se ne apre un altro: Bper lancia l’ops su Popolare di Sondrio. Tutto sembra sotto controllo – Unipol ha il 20 per cento in entrambe – ma qualcosa non torna. Perché JP Morgan, nel mezzo di questa quiete apparente, spunta dal nulla e si prende quasi il 10 per cento di Bper. “Siamo solo operatori di mercato”, dicono. “Non vogliamo controllare nulla”, riporta La Verità. Nessuno ci crede davvero. La quota è spalmata tra azioni, bond e derivati, come piace a chi preferisce muoversi sotto il radar. Il sospetto? Che JP Morgan stia agendo per conto di qualcun altro. E il primo nome che circola è sempre lo stesso: Unicredit. Che ufficialmente è impegnata sull’ops con Banco Bpm, ma ufficiosamente non ha mai smesso di guardarsi intorno. Orcel vuole fare shopping, ma sa che ogni mossa può scatenare una reazione a catena. E poi c’è Cimbri, ad di Unipol, che mesi fa ha lanciato la bomba su Ing come potenziale scalatore. Gli olandesi hanno smentito, ma intanto il sospetto resta. L’aria è quella di una partita a scacchi, in cui nessuno dichiara le proprie intenzioni, ma tutti si preparano a muovere. Anche il governo è nervoso: Tajani lancia frecciate al golden power, Bruxelles osserva con sospetto, e la sensazione è che in questo caos normativo ognuno farà quello che vuole, fino a prova contraria.

A complicare il quadro ci si mettono anche i numeri. Perché mentre tutti parlano di fusioni, acquisizioni e quote strategiche, le banche europee stanno silenziosamente alzando gli accantonamenti. Secondo S&P, +18 per cento su base annua. Unicredit da sola ha messo da parte 800 milioni per “pulire” i conti di Banco Bpm. La Bce avverte: la qualità del credito tiene, ma i segnali sono chiari. La tensione commerciale, le guerre commerciali e l’instabilità globale spingono le banche a proteggersi. E non basta: la Bce mette in discussione anche i modelli previsionali interni. Tradotto: non si fidano nemmeno più dei sistemi con cui le banche stimano i loro stessi rischi. Questo mentre in Italia si chiudono sportelli, si licenzia, e il sindacato lancia l’allarme: “desertificazione bancaria”, la chiamano. Un altro modo per dire che intere aree del Paese rischiano di restare senza accesso al credito. Le fusioni, così, diventano operazioni chirurgiche fatte con l’accetta. Nessuno si scandalizza più, ma il rischio è che tra i grandi giochi di potere a pagare siano – come sempre – territori, clienti e lavoratori. In questo scenario, anche la politica annaspa. Tra Golden Power usato a corrente alternata, interessi esteri e debolezze strutturali, l’Italia si trova nel mezzo del guado.
