La temperatura del risiko bancario italiano ha superato da tempo i livelli di guardia. Al centro dello scacchiere c'è Andrea Orcel, ceo di Unicredit, che ha avuto l’ardire di mettere gli occhi – e le mani – su Banco Bpm lanciando un'offerta pubblica di scambio (ops) che il governo ha tentato di bloccare con un colpo di Golden Power. La reazione di Orcel? Un ricorso al Tar, la cui udienza è fissata per il 9 luglio, e un silenzio carico di tensione. In attesa del verdetto, la posta in gioco non è solo un’acquisizione, ma la stessa autonomia della finanza italiana da un esecutivo che pare più incline a usare le regole del mercato come una clava politica. Come ha scritto Massimo Giannini su Repubblica, siamo in piena “ipocrisia tartufesca da Repubblica delle banane”: da una parte si invoca più concorrenza in Europa, dall’altra si bloccano con pretesti strategici operazioni che minacciano lo status quo tricolore. Il Golden Power – originariamente pensato per difendere settori critici – è diventato, secondo il caustico “Banchiere Anziano” citato da Giannini, “un bel dazio interno” contro i banchieri indisciplinati. E chi osa sfidare il nuovo “Stato Padrone” delle destre viene messo alla berlina. Chiedere a Orcel e Nagel per dettagli.

Il paradosso è che, proprio mentre il governo sbandiera la difesa della sovranità economica, l’Italia diventa il laboratorio sperimentale di un’accelerazione mai vista del consolidamento bancario europeo. Stefano Paleari, docente di Analisi dei Sistemi Finanziari, fotografa sul Corriere della Sera un quadro che oscilla tra opportunità e rischio: sette ops lanciate da settembre, tra cui quella Mediobanca-Banca Generali, incrociano dinamiche di mercato con le ambizioni dei grandi manager e le ingerenze governative. E il nodo è chiaro: se queste operazioni creeranno valore, l’Italia potrà guidare il cambiamento; se falliranno, il continente pagherà l’azzardo. Fabio Panetta, governatore di Bankitalia, lo ha messo nero su bianco: servono 800 miliardi di euro l’anno per la transizione verde, digitale e militare, e saranno le banche a dover mobilitare il capitale. Ma come si fa a chiedere alle banche di finanziare l’innovazione, mentre si impongono steccati politici che paralizzano le aggregazioni? Consolidare può spaventare – lo ammette lo stesso Paleari – ma è un passaggio obbligato per evitare che il sistema resti prigioniero di logiche localistiche e patrimonialismi incrociati. Il problema, semmai, è chi guida queste fusioni e con quale agenda: creazione di valore o difesa del fortino?

Intanto, dal governo, Antonio Tajani getta acqua sul fuoco con la grazia di un diplomatico col petardo in mano. In un’intervista a Milano Finanza, il vicepremier ammette che che “non è certo che ci siano veri rischi per la sicurezza nazionale” nel caso Unicredit-Bpm, mettendo in discussione la stessa base giuridica dell'intervento del governo. Ma l’aria è tesa: la decisione su Orcel non è solo tecnica, è politica. E lo è anche l’alternativa che avanza all’ombra di Monte dei Paschi di Siena (Mps), Mediobanca e Generali: una giostra di Ops incrociate, fusioni annunciate e tentativi di scalata mascherati che potrebbero ridisegnare la mappa del credito nazionale. Piazzetta Cuccia trasformata in centro di gestione patrimoniale? Mps che sogna di fagocitare Mediobanca? In questo schema fluido, l’unico vero punto fermo è che il potere bancario non sparisce: si concentra. E più si concentra, più diventa sensibile agli interessi di chi governa. Il rischio? Che il futuro della finanza italiana venga scritto non nei consigli d’amministrazione, ma tra le mura dei ministeri. E che dietro la retorica della difesa del risparmio si nasconda, ancora una volta, l’ansia tutta italiana di controllare – e manipolare – ciò che sfugge alla politica.