Quando le banche si muovono, il pavimento trema. Non è solo questione di soldi – ché quelli vanno e vengono – ma di potere, territorio, consenso e, soprattutto, posti di lavoro. In queste settimane si consuma uno dei duelli più viscerali del risiko bancario italiano: quello tra Unicredit, con Andrea Orcel e la sua strategia predatoria ondivaga e astuta, e Banco Bpm, il fortino lombardo capitanato da Giuseppe Castagna. L’oggetto del desiderio? Una fusione mascherata da offerta pubblica di scambio (ops), che sa più di guerra d’attrito che di “operazione industriale”. E mentre gli avvocati preparano gli argomenti davanti al tar del Lazio, dove si discuterà se sia legittima o meno la sospensione chiesta dalla Consob per dare tempo e chiarezza al processo, fuori dalle aule i sindacati alzano il volume: “Così si gioca con la vita delle persone”, dicono. Perché se in Borsa la partita si gioca con i decimali, nella realtà si misura in chilometri da percorrere per andare a lavorare, in sportelli chiusi nei paesi di provincia, in famiglie che vedono il credito evaporare. Intanto, sotto il pelo dell’acqua, Unicredit ha impugnato davanti al tar anche il famigerato Golden Power, quel meccanismo in mano al governo che dovrebbe tutelare l’interesse nazionale nelle operazioni finanziarie. Il sospetto, che ormai circola in maniera costante, è che questa operazione sia più una scalata politica che un'aggregazione industriale. E come spesso accade in Italia, le Authority di garanzia si muovono su un crinale sottile tra autonomia e pressione istituzionale. Lì dove Paolo Savona, presidente Consob, è stato messo nel mirino da chi non ha gradito il suo voto favorevole al rinvio dei termini. Addirittura qualcuno ne aveva ipotizzato le dimissioni. Intanto, Banco Bpm continua a giocare su due tavoli: resistere all’offensiva Unicredit, e valorizzare la propria immagine pubblica di banca vicina al territorio, agli imprenditori, ai lavoratori. Un messaggio tutto cuore e radici, che però rischia di perdersi nel fragore delle operazioni finanziarie spinte a tutta forza dal lato milanese della barricata.

E proprio sui territori si palesa la sfida reale e non speculativa, quella che riguarda il lavoro dei bancari. La First Cisl, sindacato dei bancari, non la manda a dire: “Questa non è una fusione, è un incubo”. I numeri sono da brividi. Secondo le stime sindacali, l’impatto dell’operazione sulle filiali è ben più pesante del previsto: oltre 40 province italiane avrebbero un tasso di sovrapposizione degli sportelli superiore al 20 per cento, la famosa “soglia critica” che dovrebbe far scattare l’antitrust. Si parla di 209 sportelli potenzialmente da cedere. Ma non sono solo muri e banconi. Sono volti, relazioni, occupazione. Perché dove si chiude uno sportello, spesso si spengono anche i piccoli flussi di credito che tengono in piedi famiglie e botteghe. I lavoratori, avverte il sindacato, rischiano trasferimenti forzati, demansionamenti, incertezza. “Non si fanno fusioni sulla pelle delle persone”, attacca Uilca. Eppure è quello che sta succedendo. La narrativa ufficiale, quella degli investitori, parla di sinergie, efficienza, ritorno sul capitale. Ma i sindacati rispondono che sotto il tappeto si stanno nascondendo macerie sociali. Intanto, in questa partita di risiko si muovono anche altri pezzi. Jp Morgan, ad esempio, che fa e disfa la sua posizione in Bper, superando la soglia del 10 per cento e costringendo a notifiche ufficiali in Consob. L’impressione è che molti, dietro le quinte, si stiano preparando al grande valzer bancario d’estate. Il rischio? Che il sistema, nel nome della concentrazione e della competizione globale, si dimentichi dell’Italia profonda, quella delle filiali a un passo da casa, quella dove la banca è ancora il volto di un cassiere che ti conosce per nome. E se il futuro sarà scritto nei comunicati, nei piani di fusione e nei verdetti del tar, è il presente a chiedere conto: chi ci guadagna davvero? E soprattutto, chi pagherà il conto?
