Di fantasmi, Luciano Garofano, ne ha visti a decine. Non quelli da film, ma quelli veri. Quelli che ti restano appiccicati alla pelle, come l’odore di cloroformio nelle aule d’autopsia. Ex comandante del Ris di Parma, memoria storica del crimine in Italia, ha passato la vita a leggere le macchie di sangue come fossero righe di un romanzo maledetto. E certe frasi, dice nell'intervista di Giusi Fasano sul Corriere della sera, non se le dimenticherà mai. Tipo quella scritta nel bagno di casa De Nardo, a Novi Ligure. Il sangue in basso sul muro, le strisciate: "Gianluca cercava di fuggire, già ferito. Lo inseguirono, tentarono di annegarlo, gli diedero veleno per topi. Lo finirono con altre coltellate". Aveva undici anni. E Garofano, che all’epoca aveva figli della stessa età di Erika e Omar, non ha mai smesso di chiedersi: com’è possibile che due adolescenti possano essere così crudeli? Quella scena illuminata dal luminol nella vasca – dice – se la sogna ancora. Come gli occhi del padre di Simonetta Cesaroni in Via Poma, che non diceva nulla, ma pregava in silenzio: “Vi prego, trovate un senso”. O come l’ingegner De Nardo, davanti alla villetta della strage: "Buonasera. Grazie per quello che fate". Nient’altro.

Garofano è stato l’uomo dietro le quinte nei casi più oscuri d’Italia. Capaci, Erba, Cogne, Garlasco, Via Poma, Rostagno, la contessa Vacca Agusta. E ogni volta portava con sé non solo le provette e le pinzette, ma anche un codice morale. Quando vide per la prima volta il laboratorio del Ccis, da giovane ufficiale con la camicia stirata e l’animo scientifico, fu amore a prima vista: “Non avrei lottato contro il cancro, ma per la giustizia. E mi bastava”. Certe volte la scienza ha spaccato il buio, come con Donato Bilancia: "Uccise 17 persone in sei mesi. Lo beccammo grazie alla saliva sul bordo di un caffè. Il dna coincideva con quello su una cicca accanto a una prostituta morta. Ma non bastò: ci vollero intercettazioni, testimonianze, logica. Le indagini non sono mai solo scientifiche, anche se vi piace crederlo". Altre volte, invece, la verità è rimasta sepolta. Come nel caso Gravina, i fratellini Ciccio e Tore morti in una cisterna: “Io sono convinto che ci finirono mentre giocavano con altri ragazzini che oggi sono uomini. E che sanno cosa successe davvero”. La scienza, oggi, potrebbe fare molto. Ma il giudice ha detto no alla riapertura. “Peccato”.

E Garlasco? "Il Dna della perizia fatta nel 2014 non è attribuibile a nessuno, Alberto Stasi e Andrea Sempio compresi". Quando nel ‘95 prese il comando del Ris, portò le tute bianche sulle scene del crimine. I pm lo guardavano come un marziano: “Ma lei ha capito chi sono?” – gli chiese uno. Risposta: “Sì, il pubblico ministero. Ma se entra così ci contamina tutto”. Da lì in poi, l’Italia imparò a conoscere quegli “scienziati in tuta bianca”. All’inizio li trattavano come figuranti. Poi cominciarono ad ascoltarli. E mentre indagava su mozziconi di sigarette mafiosi, rapimenti, figli morti e padri in silenzio, Garofano si portava tutto dentro. “Lavoro più adesso di prima”, dice. Non ha mai smesso. Perché la giustizia – se ci credi davvero – non è un mestiere: è un’ossessione. Quando lasciò l’Arma, lo fece con amarezza, dopo un’inchiesta da cui fu totalmente scagionato. Ma il veleno era rimasto: “Conoscere il male genera anticorpi. E io li avevo”. Oggi, a 72 anni, dice che tornerebbe al Ris anche gratis. E che ogni tanto, quando il tempo gli scappa tra le mani, pensa che gli dispiace che tutto debba finire. Ma poi si guarda indietro e tira una linea: “Mi piace moltissimo la mia vita. E vorrei che non finisse mai”.
