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Intervista totale a Lia Quartapelle: “Meloni? Premier rissosa, fa perdere tempo all’Italia". Svela come battere le destre e su Israele, Iran e Europa…

  • di Francesca Mandelli Francesca Mandelli

  • Foto: Ansa

1 luglio 2025

Intervista totale a Lia Quartapelle: “Meloni? Premier rissosa, fa perdere tempo all’Italia". Svela come battere le destre e su Israele, Iran e Europa…
Lia Quartapelle, deputata del Pd, analizza a MOW senza mezzi termini il disastro della politica internazionale e la gestione del governo Meloni. Tra accuse all'Occidente, la situazione esplosiva in Medio Oriente e la lotta interna al Pd, la politica estera dell'Italia emerge come un campo di battaglia. Ma la sua sfida più grande? Unire la sinistra per fermare l'ascesa delle destre nazionaliste

Foto: Ansa

di Francesca Mandelli Francesca Mandelli

La novità del nostro tempo è la rottura tra nazioni e dentro le nazioni dell’Occidente. Da anni negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei è venuta crescendo la contestazione e l’erosione dei fondamenti dell’Occidente, e cioè la libertà individuale, la democrazia e la solidarietà sociale. Parallelamente, in Europa crescono movimenti aggressivamente nazionalisti, reazionari e persino razzisti. A Milano è nato il Circolo Matteotti, un luogo di discussione aperto a tutti i contrari al bipopulismo contemporaneo, slegato dai partiti ma con i riformisti del Pd, Azione, Italia Viva e +Europa. Ne fa parte Lia Quartapelle, deputata del Partito Democratico e vice presidente della Commissione Affari Esteri e Comunitari. L’abbiamo intervistata.

Al centro Lia Quartapelle
Al centro Lia Quartapelle foto di Lia Quartapelle

Viviamo un momento di grandi tensioni nel mondo. Con Israele che, dopo l’ennesima guerra con la Palestina, ha bombardato l’Iran, con l’intervento degli Stati Uniti e la guerra tra Russia e Ucraina ancora in corso…

Stiamo vivendo una fase in cui si vedono delle tendenze di fondo molto preoccupanti: un aumento dell'aggressività a livello internazionale, la voglia di farsi un ordine internazionale a propria immagine e somiglianza. Mi preoccupa questo aumento di tensioni senza limiti. Siamo entrati in quello che in inglese si dice “uncharted waters”, cioè in territori inesplorati, in acque inesplorate. Non so quanto siamo equipaggiati, dal punto di vista cognitivo e degli strumenti della politica estera per affrontarli.

Hai sempre sostenuto Israele ma hai anche partecipato alla manifestazione del Pd pro Gaza…

Il mio è sempre stato un sostegno all'Israele democratica, laica, progressista, all'Israele socialista delle origini. Non certamente alla destra nazionalista e religiosa di Netanyahu e provo orrore rispetto alle notizie quotidiane delle responsabilità di crimini di guerra e contro l’umanità che arrivano da Gaza e dalla Cisgiordania (che non bisogna dimenticare). Le sparatorie contro i civili che aspettano il cibo, così come l’assedio e le violenze a cui è sottoposta la popolazione palestinese in Cisgiordania sono il tradimento profondo dell’idea della convivenza dei due popoli in due stati per cui Shimon Peres si è impegnato e Yitzhak Rabin ha perso la vita. Ho guardato il film su Golda Meir. Racconta di una prima ministra che, proprio come Netanyahu il 7 ottobre - tra l'altro esattamente 50 anni prima - si trova a fronteggiare un attacco. È il racconto di quei giorni e della responsabilità che Golda Meir sente, del peso degli uomini caduti, pur avendo ottenuto una vittoria sul piano militare. La guerra dello Yom Kippur, però, si conclude con gli accordi tra Israele e l’Egitto nel ’78, che è proprio il contrario di ciò a cui sembra stia pensando Benjamin Netanyahu oggi. In Israele, a differenza di quanto accaduto in ogni fallimento dell’intelligente precedente, il governo non permette la creazione di una commissione d’inchiesta su cosa sia andato storto il 7 ottobre. Golda Meir, durante quella guerra, capisce che deve fare la pace con i vicini. Oggi nessuno pensa che questa idea si affacci nella testa di Netanyahu, invischiato in una guerra senza fine per ragioni ideologiche e per garantirsi il sostegno della destra oltranzista. Sono legata a una certa parte di Israele, a chi manifesta contro il governo da anni, alle organizzazioni per il dialogo israelo-palestinese, ma il suo governo è oggi qualcosa di completamente diverso.

Cosa ne pensi dell’attacco all’Iran?

A differenza di quanto successo dal governo ucraino dopo l’invasione di Putin, qui il governo israeliano non ha chiarito né condiviso subito l’obiettivo, anzi ne sono stati citati diversi. Si è parlato a volte di regime change, a volte di distruggere il programma nucleare iraniano. E, a differenza dell’Ucraina, sia prima che dopo l’invasione, non sono state rese pubbliche informazioni o strategie. Israele e Stati Uniti sembrano voler raggiungere obiettivi senza più tenere conto di un equilibrio generale, che però è ciò che, storicamente, governa le relazioni internazionali. Il precedente è pericoloso. L’Iran è un regime tra i più odiosi della terra. Il solo pensiero che possa avere la bomba atomica deve far venire i brividi lungo la schiena a tutti. Nessuno sta dicendo — e non mi passerebbe mai per la testa — di difendere né il regime né il diritto di questo a dotarsi di un’arma nucleare. Ma proprio per questa ragione, ci sarebbe stato spazio per costruire un’alleanza e strumenti internazionali per evitarlo. E mi preoccupa che due paesi che appartengono al blocco occidentale, ovvero a quel blocco che dovrebbe difendere la preminenza della forza del diritto internazionale, nemmeno hanno pensato di farlo.

Quando c’è stato un intervento dell’Occidente, e dell’America in particolare, in Medio Oriente, non è mai andata a finire bene…

Sì, appunto. Tra l’altro il rischio di queste ore è che l’Iran si ritiri dalla pur lacunosa e faticosa collaborazione con l’Agenzia atomica internazionale. Macron dice che i regime change non hanno mai funzionato e che quelli fatti con la forza non hanno prodotto risultati positivi, mentre Merz fa una delle dichiarazioni più inopportuna di sempre sul “lavoro sporco di Israele per tutti noi”. Insomma, neanche Francia e Germania sembrano avere una linea comune: danno valutazioni completamente opposte. O come paesi europei troviamo la forza per rafforzare gli strumenti del diritto internazionale o saremo i primi a soccombere in un sistema dove vale la legge del più prepotente.

Ti sei occupa molto di politica estera, cosa ne pensi del riarmo voluto dalla Commissione Europea?

Il nome del programma scelto inizialmente dalla Commissione Europea non è felice: chiamare una cosa “riarmo” in un momento in cui le opinioni pubbliche sono disorientate e spaventate è un errore comunicativo. Detto questo, in un mondo agitato e pericoloso come quello in cui viviamo, e in cui gli Usa hanno chiarito che non pagheranno per la nostra difesa, è illusorio pensare di poter mettere la testa sotto la sabbia. Per questo sono molto favorevole al percorso europeo verso una maggiore integrazione anche della difesa e della politica estera. Il piano von der Leyen è l’inizio di una difesa europea. Non è già tutto pronto e deciso: è come quando si parlava dell’euro, all’inizio si diceva “ci sarà una moneta unica”, ma nessuno sapeva davvero come sarebbe stata, quali poteri avrebbe avuto la Banca Centrale e a che livello di integrazione saremmo arrivati. Tant’è che oggi non abbiamo ancora né l’integrazione bancaria né quella fiscale, perché il percorso dell’euro è incompleto. Per la difesa europea siamo solo all’inizio, e per me è importantissimo stare dentro a questo processo per influenzarne il cammino e far sì che porti a decisioni efficaci: fare insieme quegli investimenti che i paesi europei da soli non possono fare (sistemi di difesa anti-missile, sviluppo satellitare) arrivando a un’integrazione reale tra le forze armate nazionali. Il graduale disimpegno americano dalla Nato offre una opportunità: rendere quella alleanza, che oggi protegge il 97% della popolazione europea, una organizzazione a guida europea e il vero nucleo operativo della difesa del continente. Rigettare il piano europeo perché manca ancora l’unione politica o perché è troppo basato sugli eserciti nazionali sarebbe, secondo me, venir meno alla sfida che la nostra generazione politica ha davanti: costruire un pezzo in più dell’integrazione europea, proprio nel campo più sensibile, nel momento in cui ce n’è più bisogno. L’euro è nato in un’epoca di sogni e di espansione. Oggi, invece, c’è davvero bisogno di questo tipo di difesa comune. E secondo me non possiamo tirarci indietro da questa discussione.

Secondo te, come sarà possibile in futuro realizzare una politica davvero comune a livello europeo? Una politica che sia — e venga anche percepita — come incisiva dai cittadini europei?

L’epoca che viviamo — che è un’epoca tutta concentrata sul presente — non ci permette di vedere che, in realtà, le cose stanno evolvendo molto rapidamente. È vero: l’unanimità delle decisioni in politica estera e di sicurezza è una debolezza dell’Unione Europea. Ma c’è anche il ruolo di chi guida i processi. Torniamo indietro, non a cento anni fa, ma a febbraio, quando ci fu l’incontro alla Casa bianca tra Zelensky e Trump. Quel giorno analisti importanti hanno pensato che Zelensky avrebbe dovuto dimettersi, che le relazioni con gli Stati Uniti fossero completamente compromesse, che l’Ucraina sarebbe stata abbandonata a sé stessa. Oggi, invece, l’Ucraina è al tavolo negoziale con la Russia da una posizione di maggiore forza, perché c’è stato un gruppo di Paesi europei — non solo dell’Unione Europea, anche il Regno Unito — che hanno creato il “gruppo dei volenterosi” e hanno aiutato Zelensky a riaprire i rapporti con gli Stati Uniti, sapendo che dietro di lui c’era chi lo avrebbe sostenuto dal punto di vista economico, politico e militare. Non c’è stato bisogno della decisione del Consiglio, né del veto dell’Ungheria. C’è stata una capacità di leadership da parte di alcuni Paesi europei, che ha davvero fatto fare un salto in avanti alle cose. Aspettiamo il modello ideale di unione politica, e aspettando il modello ideale non ci accorgiamo che, di fatto, esiste già un gruppo di Paesi che esercita una leadership politica — ed è quella di cui oggi abbiamo bisogno. Sì, certo: servono le riforme istituzionali, bisogna ripensare il ruolo dell’Unione Europea in politica estera, tutto vero. Ma bisogna partire da una politica pragmatica. Perché è vero che l’Europa, nella crisi ucraina, si sta prendendo un ruolo di leadership: un ruolo vero, reale, concreto, positivo, propositivo, che prima non aveva. Diverso è, invece, il caso del Medio Oriente, dove effettivamente l’Unione Europea — o meglio, i paesi membri — non hanno mai esercitato nessuno ruolo in questi drammatici 21 mesi. Non c’è nessun passo avanti, nessun coordinamento. Non si riesce neanche a decidere sulla sospensione della parte commerciale dell’accordo di collaborazione Ue-Israele. Oggi i tentativi di intervenire su quanto sta accadendo tra Israele, Gaza e i paesi della regione avvengono a Washington, in Qatar, in Turchia, negli Emirati… non in Europa. Perché su questa seconda crisi, così drammatica, l’Europa è del tutto incapace di imprimere una direzione politica. E quando dico Europa, intendo i paesi europei. Italia in testa.

Lia Quartapelle in Parlamento
Lia Quartapelle in Parlamento foto di Lia Quartapelle

Come si pone il governo italiano oggi nei confronti della politica estera?

L'Italia su Israele, su Gaza è gravemente insufficiente. Un’onta sul governo. Per fermare la drammatica e intollerabile crisi di Gaza i paesi europei possono prendere una decisione che ha un impatto sul governo israeliano, ovvero rivedere gli incentivi commerciali previsti dagli accordi tra Israele ed Europa. La maggioranza dei Paesi europei si è schierata a favore della revisione di questa parte degli accordi. Quella revisione può avvenire a maggioranza qualificata. L’Italia è il Paese chiave per farla scattare. Giorgia Meloni al Consiglio europeo si è schierata contro questa possibilità, di fatto dando un lasciapassare alla continuazione della campagna di Netanyahu a Gaza. Quello che sta succedendo a Gaza non ha nessuna giustificazione militare o strategica. È intollerabile vedere che le persone vengono uccise mentre sono in coda ad aspettare il pane. Che l’Italia possa agire per fermare tutto questo e il governo decida di non farlo non ha nessuna giustificazione. È il venire meno di 80 anni di politica estera di equivicinanza nel Medio oriente, è una bancarotta morale. La guerra che Netanyahu sta facendo contro i palestinesi è una guerra che sta succhiando l’anima di Israele. È la guerra più lunga della storia dello Stato di Israele: 21 mesi. Netanyahu non ha mai definito la vittoria, non ha un’idea di cosa si farà dopo a Gaza. Netanyahu ha aggiunto il carico dell’assedio in cui ha chiuso la Cisgiordania, dove ci sono stati centinaia di morti negli ultimi mesi: morti tra i palestinesi uccisi dai coloni in operazioni mirate. È un livello di violenza che non è giustificabile, non è tollerabile. Netanyahu, due settimane fa — tre settimane fa — ha dato l’avvio al più grande programma di insediamenti in Cisgiordania dopo gli accordi di Oslo. Sta rendendo lo Stato di Israele uno Stato permanentemente in guerra con i palestinesi, perché non vuole riconoscere lo Stato palestinese. Ha una posizione ideologica, messianica, pericolosa.

Guardando invece alla politica interna, come valuti il governo di Giorgia Meloni fino ad oggi?

Il suo governo sta facendo perdere un sacco di tempo all’Italia. Non ha preso nessuna decisione sulla questione della qualità del lavoro, limitandosi a ripetere che sono stati creati un milione di posti di lavoro. Dovrebbe essere la prima a rendersi conto che se lavorano più persone ma aumenta il numero dei poveri, c'è un enorme, gigantesco, drammatico problema di retribuzioni e di dignità di quel lavoro. Lo stato del welfare, la scuola, la sanità, il caro vita, il governo non si è occupato di nulla e sono i grandi temi di cui la gente parla a cena la sera, perché riguardano la qualità della vita. Il governo Meloni a queste preoccupazioni risponde e ha risposto con il decreto sicurezza, il decreto Caivano… il suo grande lascito sarà avere inasprito le pene, con un sistema giudiziario già sovraccarico. Allora a cosa serve fare la faccia feroce con i manifestanti, con quelli che vanno a fare i rave, con i giovani che incappano in problemi con la giustizia? Serve da un lato a creare un clima di emergenza continua per coprire le assenze di iniziativa di governo sulle grandi questioni nazionali e serve a esasperare il clima dialettico con le opposizioni, non solo con le opposizioni ma con chi si oppone alle attività del governo, sia dentro che fuori dal Parlamento. Non è un buon modo di governare l'Italia, litigare con tutti. Ma è il modo di Giorgia Meloni, che è una premier molto rissosa.

I referendum dell’8 e del 9 giugno su lavoro e cittadinanza sono andati male e sono stati poco partecipati. Come mai?

Non si può fare ma se si fosse fatto un referendum sul salario minimo ci sarebbe stata una partecipazione ben superiore al quorum, perché oggi quella è un'emergenza, se ai cittadini si chiede vuoi il salario minimo, (lo so perché abbiamo raccolto le firme per una legge di iniziativa popolare sul salario minimo) le persone vogliono partecipare, vogliono esserci, ritengono che sia una priorità. Abrogare una legge di dieci anni fa, che tra l'altro riportava indietro a una legge ancora peggiore, si sarebbe tornati alla legge Monti Fornero, che era una legge che dava ancora meno tutela ai lavoratori, non è il modo giusto secondo me in questo momento per affrontare la grande questione della precarietà e della qualità del lavoro. Oggi la precarietà è una precarietà soprattutto retributiva e troppo spesso non c'è capacità contrattuale per aiutare a rinnovare i contratti nazionali. Un referendum che spacca il sindacato, perché due sindacati su tre non hanno partecipato alla raccolta firme del referendum e non erano d'accordo su tutti i quesiti del referendum, è il modo migliore per indebolire la capacità contrattuale dei sindacati. Il mondo del lavoro è molto più variegato dei semplici lavoratori dipendenti assunti con l'articolo 18, dobbiamo lavorare sul riconoscimento del valore del lavoro in qualunque forma contrattuale questo avvenga.

All’interno del partito democratico, fai parte di una minoranza. Cosa ti “divide” dalla segretaria Elly Schlein?

Se dobbiamo parlare di cose che mi dividono da qualcuno, parliamo di Giorgia Meloni. Pur non avendo votato Schlein alle primarie, faccio pare di un partito che l’ha scelta come segretaria e quindi dal giorno dopo il congresso lei è la mia segretaria. Si parla sempre della discussione all'interno del Pd e ci si dimentica però che noi discutiamo per essere poi più efficaci nel maturare una posizione e battere la destra sovranista e populista. Quindi i contributi che noi portiamo alla discussione - quelle divisioni su cui tanto insiste la stampa - sono contributi che devono servire per battere Giorgia Meloni. In questa chiave, faccio due aggiunte alle cose sulle quali il Pd sta già lavorando: l'attenzione al ceto medio, sempre più impoverito; il contributo che portiamo al processo di integrazione europea. Alcuni dei nostri alleati hanno deciso, Movimento 5 Stelle e Avs, che questa commissione sbaglia e non la appoggiano. Io invece penso che il nostro appoggio alla Commissione von der Leyen non possa mancare, ma debba essere caratterizzato dalle nostre tematiche. Un Green Deal che sia attento alla capacità di investimento delle imprese, una difesa europea solida ed efficace e un'agenda sociale che senza i socialisti rischia di scomparire. E infine nel PD si deve discutere anche della gestione dell'immigrazione. Il risultato del referendum sulla cittadinanza deve farci articolare una posizione sull’immigrazione non solo basata sui diritti, ma che parla anche i doveri e che non tace sulle difficoltà della convivenza. In una fase in cui non c'è nessuna sinistra in Italia o in Europa o in Occidente che ha una ricetta vera, la discussione è ricchezza. È necessaria ed è feconda. I tempi in cui c'è uno che decide per tutti, li abbiamo già vissuti nel Pd e non ci hanno portato bene. Bisogna fare uno sforzo, lo deve fare la maggioranza, lo deve fare la minoranza. Lo sforzo di partire dalla realtà, non piegare la realtà ai nostri desideri, e trovare dei punti su cui lavorare. L’obiettivo di tutti noi è battere Giorgia Meloni.

Alimentare il dibattito è anche l’obiettivo del Circolo Matteotti mi pare…

Si, nessuno ha la ricetta giusta nella sinistra occidentale per battere l’avanzata delle destre nazionaliste e populiste. Per difendere la democrazia, rafforzare l'Europa, fare le riforme di cui l'Italia ha bisogno, dobbiamo prima di tutto favorire un confronto sulle questioni fondamentali, anche tra chi non la pensa nello stesso modo al cento per cento ma tra chi crede che l'Italia debba essere protagonista in Europa, un Paese moderno, che ragiona sul modello di sviluppo, un Paese più giusto. Bisogna discutere cercando di riunire quelle anime socialiste, liberali, moderate, centriste, socialdemocratiche che ci sono nella sinistra, che vogliono confrontarsi per arrivare a offrire un'alternativa a Giorgia Meloni. Perché l'idea che si vince solo con Pd, Movimento 5 Stelle e Avs è un’illusione.

A Milano si parla già da un pò del “dopo Sala”. Milano è la tua città, dov’è nata la tua carriera politica. Non faresti mai la candidata sindaca?

Milano sta vivendo una fase complicata, perché è vittima del suo successo, ma feconda, perché è necessario ripensare la città. Come correggiamo la rotta di uno sviluppo che rischia di essere per pochi? Come sono cambiate priorità di chi vive e lavora a Milano? Sento la responsabilità di contribuire a discutere di questo. Negli ultimi mesi con il centro culturale Caldara abbiamo promosso un percorso di riflessione su come è cambiata Milano negli ultimi 15 anni, che abbiamo chiamato “Hey Milano”. Poi penso sempre che la politica è quella cosa dove tu puoi avere qualsiasi attenzione ma sono gli altri che ti devono votare, quindi sarebbe insomma fuori scala dire “eccomi”. E, onestamente, da quando esiste l’elezione diretta del sindaco, Milano ha sempre scelto esponenti della società civile, non politici.

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