Alessandro Sallusti a noi piace così: sfacciatamente menefreghista di fronte ai fatti. Nel suo fondo del 4 aprile (“Se agli editori non piace il libero mercato”), il direttore del Giornale si intigna nel voler difendere a tutti i costi l’acquisto dell’agenzia Agi da parte dei suoi editori, la famiglia Angelucci. Per farlo, non avendo argomenti, si appella al sacro verbo del buon liberale, cercando di camuffare l’operazione come tutto sommato banale esempio di “libero mercato”. Cioè esattamente il contrario di quanto avverrebbe se l’operazione andasse in porto alle condizioni tutt’oggi note. Di che cosa si tratta? Di una società controllata dell’Eni, che la venderebbe tramite trattativa privata, cioè diretta, e non con bando di gara. La controllata in questione non è una testata giornalistica generica: è un’agenzia di stampa (la seconda in Italia, dopo l’Ansa), che in quanto tale fornisce un servizio di informazione di base a quei giornali con cui stipula contratti di fornitura. Le notizie d’agenzia, poi, vengono utilizzate e trattate dai vari giornali secondo la legittima linea editoriale e politica di ciascuno. Ora, le agenzie operano in un settore speciale che gode di finanziamenti pubblici mirati, assegnati anno per anno dal governo in carica. Nel luglio 2023 è stata varata una riforma che porta la firma del sottosegretario all’Editoria, Alberto Barachini di Forza Italia. Prevede che il 65% del bilancio delle agenzie che avevano vinto il bando del 2017 (fra queste, anche l’Agi) sia coperto dai fondi statali. Per il 2024, l’Agi ha a disposizione 3,1 milioni di euro (determina 6 dicembre 2023), senza contare la possibilità di accedere ai lotti del bando in corso per servizi di carattere specialistico, ad esempio video-grafici, per le amministrazioni dello Stato. Totale: 55, 8 milioni di euro, in scadenza l’11 aprile. Noterete che il termine “bando” torna più volte. Bene: si dà il caso che l’Eni, il cui azionista di riferimento è il Ministero dell’Economia guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti, pare abbia individuato il compratore nel gruppo editoriale proprietario del Giornale, di Libero, del Tempo e del Corriere dell’Umbria. Presidente è Giampaolo Angelucci, figlio di Antonio Angelucci. Quest’ultimo è anche, incidentalmente, deputato dello stesso partito di Giorgetti, la Lega.
Ricapitolando: un parlamentare di un partito della maggioranza che governa è coinvolto nella cessione di un ramo d’azienda di proprietà di una partecipata di Stato che risponde a un ministro dello stesso partito. Il conflitto d’interessi appare palese. Non solo, ma il ramo d’azienda di cui parliamo offre un prodotto, le notizie d’agenzia, che dovrebbe restare al di sotto delle pur legittime posizioni politiche che dividono i protagonisti dei media. A maggior ragione, repetita iuvant, in quanto di proprietà pubblica. Doppio sfregio. In più, come abbiamo visto, il Dipartimento dell’Editoria finanzia pure i conti aziendali, con tanti saluti, benché con tutti i crismi di legge, al “libero mercato”. E tre. Invece Sallusti, bel bello, scrive: “Un’azienda deve essere libera di mettere in vendita un ramo, un’altra di dimostrarsi interessata all’acquisto, senza che ciò suoni come una minaccia alla democrazia”. Un’azienda qualsiasi, insomma, l’Eni. I colleghi dell’Agi in stato di agitazione starebbero facendo, a suo dire, “da grancassa a tesi complottiste”, a un “can can… orchestrato ad arte non in nome di nobili principi, per altro non in discussione, ma per difendere monopoli consolidati nel campo dell’informazione”. Con monopoli, Sallusti si riferisce agli altri gruppi dominanti sul mercato, come Gedi (Repubblica, Stampa, Huffington Post, Radio Deejay, Radio Capital) e Rcs (Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport, La7, Oggi), la cui ostilità sarebbe dovuta al fatto di essere “orientati, sia pure con toni e sfumature diverse, a sinistra”, dunque schierati contro il governo Meloni di cui gli Angelucci sono fiancheggiatori.
Traduciamo: i nostri concorrenti attaccano solo per ragioni politiche il mio editore, che non solo è schierato tanto quanto loro ma pure di più, visto che siede direttamente in parlamento. Tu chiamala, se vuoi, trasparenza. Della serie: siamo tutti della stessa pasta, tutti giocatori di uno stesso gioco. Tutte imprese, cioè, la cui merce, l’informazione, si intreccia necessariamente con la politica, e dalla politica può ricevere direttamente denaro. Tutti soggetti, fra l’altro, che nel loro insieme formano un oligopolio, ovvero un assetto di pochi attori il cui predominio, man mano che cresce, strozza il mercato. Perché è evidente che se gli Angelucci si pappassero l’Agi e proseguissero addentando altri bocconi (è stato scritto che gradirebbero Radio Capital, e avrebbero pure messo gli occhi, senza successo, su La Verità), il mercato non sarebbe più libero di prima. Lo sarebbe meno. Ma qui la responsabilità primaria non sarebbe degli imprenditori Angelucci: sarebbe della politica. Guardando l’affaire Agi da questo lato, la domanda, come diceva quello, sorge spontanea: ma quale urgente e improcrastinabile vantaggio avrebbe l’holding Eni a sbarazzarsi di un costo, quello per mantenere l’Agi, che ha un peso insignificante fra le voci del proprio complessivo bilancio? E se la cessione non ha un solido fondamento finanziario, è lecito ipotizzare che abbia un senso politico, volto a favorire un editore amico? Unendo i puntini (acquirente filogovernativo-venditore controllato dal governo), potrebbe essere più che lecito pensarlo. Non è complottismo: è tratte le logiche conseguenze dall’evidenza empirica. Ma forse ha ragione Sallusti: la coerenza fra teoria e prassi non appartiene al mondo di chi si professa “liberale”. A parte una sparutissima minoranza di intellettuali utopisti (che come tutti gli utopisti, sono pericolosissimi per sé e per gli altri), i liberali in Italia non hanno mai dimostrato di tenere alla compatibilità tra idee e fatti. Le loro idee, stando al dettato, vieterebbero in blocco sfrontate commistioni politico-affaristiche, cospicui versamenti pubblici in casse private, anti-concorrenziali concentrazioni oligopolistiche. Ma diciamo che pur di giustificare il conflitto d’interessi di turno, trovar sempre una scusante, o addirittura premurarsi di non trovarla affatto, è stato storicamente il vero mestiere dei sedicenti liberali nostrani. L’ex editore del Giornale, dopotutto, era un certo Silvio Berlusconi, che sull’incompatibilità fra interessi privati e potere pubblico ha imbastito un’intera carriera politica. In fondo, è Sallusti il coerente: liberale per davvero non lo è stato mai (e nel non esserlo, fra i liberalos, è in numerosa compagnia). Volete mica che cominci oggi?