Gli stadio. Non nel senso degli impianti sportivi nei quali si tengono le partite di calcio, proprio Gli Stadio con le due iniziali maiuscole, la band bolognese capitanata da Gaetano Curreri, quelli di Chiedi chi erano i Beatles, di La faccia delle donne o Generazione di fenomeni. Ecco, prendete Gli Stadio e ditemi voi se vi può venire in mente, oggi come oggi, qualcosa di meno contemporaneo? Certo, potreste dire, che so?, Tony Dallara, ma a parte il fatto che Bruciasse il cielo di Blanco gli deve molto, parlavo di qualcosa di attuale e al tempo stesso meno contemporaneo, non vi invitavo a fare archeologia musicale. Perché sta tornando a girare insistentemente il nome di Carlo Conti come conduttore e direttore artistico della 75esima edizione del Festival della Canzone Italiana, e forse sarebbe il caso di spiegare in maniera plastica perché, lui che ne ha già condotti tre, neanche troppo tempo fa, e che è comunque un altro nome forte della televisione pubblica italiana, di quelli che si indicano non a caso come “uomo azienda”, pur avendo grandi competenze televisive potrebbe non essere poi scelta così azzeccata come sulla carta sembrerebbe. Un piccolo antefatto, noto. Amadeus ha condotto gli ultimi cinque Festival, ottenendo ottimi riscontri in fatto di share, mai nessuno come lui, l’ultimo ha toccato vette da 75% di audience, e soprattutto andando a spalmare su tutto l’anno le canzoni del Festival, al punto che le tre più ascoltate nel 2023 erano tutte e tre tra i primi cinque posti della kermesse sanremese, Lazza a spodestare dalla vetta Mengoni, ma poco cambia. Prima di lui Claudio Baglioni, cui vanno almeno riconosciuti due meriti fondamentali, aver tolto una volta per tutte, almeno fin qui, quella cazzata delle eliminazioni (Zucchero ha recentemente detto che Sanremo gli ha stracciato i maroni e che non capisce questa cosa della gara tra canzoni, fatto che a lui sembra unico al mondo, ma che a breve vedrà appunto Eurovision di scena, pensa cosa avrebbe detto se ci fossero ancora le eliminazioni) e di aver dato il via a una nouvelle vague, il suo secondo Festival lo ha vinto Mahmood, nouvelle vague che Amadeus ha poi espanso a dismisura, andando in qualche modo a togliere tutto quel che non fosse nuovo e contemporaneo, appunto. Secondo piccolo antefatto, una volta deciso di non proseguire con un Amadeus VI, c’è stata tutta una corsa a indicare il successore, che è un po’ come dire “chi mai andrà a prendere la patata bollente?”, corsa che ha visto un po’ tutti rispondere un secco “no, grazie”, da Paolo Bonolis a Antenella Clerici, passando anche per chi quella proposta sembra non averla davvero ricevuta, stando almeno alle ultime dichiarazioni alquanto possibiliste a riguardo, parlo di Alessandro Cattelan, dry o in compagnia di Alessia Marcucci, Stefano Di Martino o Gigi D’Alessio. Fugata l’idea che a sostituire Mr FestivalBar, per sua stessa ammissione Amadeus a quello guardava cambiando il DNA del Festival, fosse un altro Mr Festivalbar, almeno sulla carta, Gerry Scotti, un suo passaggio in Rai sembra fosse vincolato a un abbandono del servizio pubblico proprio da parte di Amadeus, al momento non ancora pervenuto, ecco che torna in scena Carlo Conti, l’uomo azienda buono per tutte le stagioni. Uno che dalla tv di stato, in fondo, non è mai sparito, tra i vari Tale e Quale e i suoi I migliori anni, più qualche speciale come gli Awards, varie e eventuali, è sempre in onda, e spesso con della musica intorno. Anche lui, come Amadeus, arriva dalla radio, si sarà detto qualcuno, daje Carlè.
Ma è proprio Carletto che, ai microfoni della Fumarola, su Repubblica, sembra voler mettere le mani avanti, per altro giocando di dico e non dico. Ha infatti dichiarato che se mai gli chiedessero di condurre il Festival, specificando che forse glielo hanno chiesto, dovrebbe prima capire se ha ancora l’orecchio adatto per proseguire nella via della contemporaneità imposta da Amadeus, dando per scontato che o così o Pomì. E qui torniamo a Gli Stadio, non prima di aver sottolineato come, sempre in questa modalità dico e non dico, ha pure specificato che se mai glielo proponessero o avessero proposto e decidesse per un no, si guarderebbe bene dal farlo sapere, per rispetto nei confronti di chi dovesse poi arrivare, come flexare senza flexare troppo, in pratica. Gli Stadio, dicevamo, Gli Stadio hanno vinto il secondo dei tre Festival contiani, dopo de Il Volo, che ovviamente sono ancora più classici, o lo erano ai tempi di Grande Amore, anno di grazia 2015, ora con Ad Astra un po’ meno, ma avevano dalla loro l’essere giovanissimi e comunque ancora non troppo famosi, e prima del Gabbani con scimmia che balla di Occidentali’s Karma, artista e brano quantomai originali e innovativi, in questo terzetto. Gli Stadio colpiscono, leggendone il nome, per quel loro essere non tanto classici, Sanremo è spesso stato il luogo di una classicità soprattutto melodica che ci ha permesso per anni di spopolare poi nei paesi dell’est, quanto piuttosto vintage. Intendiamoci, il loro brano, Un giorno mi dirai, era e tuttora è una bellissima canzone, ma che sarebbe potuta uscire serenamente venti anni prima, senza colpo ferire. Una canzone fuori dal tempo di una band che ha fatto la storia del nostro pop d’autore, ma che sembra del tutto scollegata dalla contemporaneità, e così dovevano pensarlo anche loro, al punto da essersi poi trovati costretti a non partecipare a Eurovision per non essersi iscritti prima del Festival, perdendo quindi il diritto a farlo a beneficio dell’ectoplasmatica Francesca Michielin di Nessun grado di separazione. Certo, gli Ermal Meta e Fabrizio Moro che hanno inaugurato l’era baglioniana potrebbero essere inquadrati nella stessa categoria, ma l’anagrafe gioca a loro vantaggio, così come quel piccolo dettaglio di essersi presentati in coppia e con una canzone che richiamava chiaramente ai fatti del Batclan, quindi a un tema assolutamente attuale, e da lì in poi l’apocalisse, con Amadeus che ha piazzato in vetta prima Diodato, classico ma outsider, la sua Fai rumore perfetta per affrontare il malinconico isolamento del lock down, i Maneskin, Mahmoo, di nuovo, con Blanco, Marco Mengoni e infine, roba di poco tempo fa, Angelina Mango, in un Festival, per altro, pieno di tormentoni estivi, quando si dice FestivalBar, da Mahmood, sempre lui, con Tuta gold, a Annalisa con Sinceramente, passando per Un ragazzo una ragazza dei The Kolors, Click Boom di Rose Villain e Apnea di Emma, La noia di Angelina Mango a giocarsela a breve a Eurovision (Eurovision dove è vero che se l’erano giocata bene Il Volo, ai tempi di Grande amore, arrivando terzi in finale, ma primi al televoto, ma dove il Mahmood di Soldi è arrivato secondo, e i Maneskin hanno addirittura vinto, non dimentichiamolo). Immagino come di fronte a tutto questo, al fatto che dal 2017 a oggi lo streaming ha sovrastato il mercato, la discografia a seguirlo a ruota con questa corsa alla performatività, un singolo al mese e vaffanculo agli album, artisti che si bruciano come legnetti di incenso all’altare del nuovo, i classici nomi da Festival scompari all’orizzonte come buona parte degli artisti sopra i quarant’anni, uno come Carlo Conti possa sentirsi in difficoltà. E come, di fronte a questa difficoltà, possa ben guardarsi dal prendersi il fardello di andare a fare peggio del 75% bulgaro di Amadeus. Va anche detto, però, che se mai capitolasse e l’amor di servizio pubblico dovesse aver la meglio sull’amor proprio, a rimetterci saremmo probabilmente noi, che dopo esserci fatti due palle tante ascoltando una buona metà di canzoni di cui, a una settimana dal Festival, nessuna traccia trovavamo in noi, potremmo ritrovarci di colpo non proiettati in una evoluzione magari encomiabile o alta del tutto, ma di nuovo ai blocchi di partenza, con le eliminazioni, i nomi tirati fuori dal freezer e pronti a ritornarci ai primi di marzo, le canzoni che magari non si somigliano tutte perché non scritte da quattro autori in tutto, ma comunque brutte come il peccato. A questo punto sarebbe bello che un colpo in testa inducesse i dirigenti Rai a puntare su qualcuno di davvero nuovo, magari un outsider, così da vedere qualcosa di diverso, perché tanto Sanremo è Sanremo, tutti lo guardiamo a prescindere, e tutti ce ne scordiamo presto, quando la vita riprende il suo normale decorso, intorno a metà febbraio.