Chi avrebbe mai immaginato che un Paese di circa 52 milioni di abitanti, con un pil pro capite di quasi trentacinquemila dollari e sede di alcune tra le più grandi multinazionali al mondo, come Samsung, Lg e Hyundai, potesse avvicinarsi a grandi passi verso l'estinzione naturale? Questa prospettiva apocalittica è contenuta, nero su bianco, negli ultimi dati diffusi da Statistics Korea, l'istituto di statica nazionale ufficiale della Corea del Sud, l'infelice protagonista della vicenda che stiamo per raccontarvi. Le proiezioni demografiche dell'ex Tigre Asiatica non lasciano spazio all'immaginazione. A meno di correzioni in corsa, infatti, la popolazione sudcoreana potrebbe dimezzarsi entro il 2100, diminuire di cinque volte entro il 2136 e arrivare, appunto, all'estinzione nel 2750. Certo, Seoul ha davanti a sé ancora 126 anni per scongiurare l'apocalisse ma all'orizzonte non si intravedono segnali degni di nota. Al contrario, nelle ultime settimane stanno facendo scalpore le No-Kids Zone apparse come funghi un po' in tutto il Paese. Il Jeju Research Institute ha infatti identificato 542 “zone vietate ai bambini”, coincidenti con ristoranti o negozi che rifiutano l'ingresso ai più piccoli. Le strutture in questione spiegano che, così facendo, sono in grado di garantire ambienti più tranquilli alla clientela. Secondo un sondaggio pubblicato nel dicembre 2023 dal ministero della Salute sudcoreano, il 68% dei proprietari di bar e ristoranti ha giustificato la propria decisione di rifiutare i baby clienti adducendo "un eccessivo carico di responsabilità". In realtà c'è chi ritiene il fenomeno delle No-Kids Zone l'ennesima conferma di un riflesso incontrollato della società sudcoreana, che starebbe iniziando a considerare estenuante anche la sola presenza di bambini. Non sorprende, dunque, che il tasso di natalità della Corea del Sud sia il più basso del mondo: 0,72 bambini per donna rispetto, ad esempio, all'1,79 della Francia e all'1,24 dell'Italia.
Apocalisse demografica
Il tasso di fertilità totale della Corea del Sud è diminuito per sette anni consecutivi fino al 2022, scendendo ad un livello provvisorio di 0,78, e cioè ben al di sotto dell’1,26 del Giappone, il suo minimo storico, e della media Ocse di 1,58 rilevata nel 2020. E pensare che fino agli anni Settanta, nelle economie asiatiche più prospere come lo erano Corea del Sud, Giappone e Cina, le donne avevano in media più di cinque figli a testa. Negli ultimi settant’anni, a dire il vero, i tassi di fertilità sono diminuiti in tutto il mondo, con un calo totale del 50%. Persino nei Paesi più avanzati il tasso si aggira intorno agli 1,6 figli per coppia, rispetto al tasso raccomandato di 2,1 per quelle nazioni che vogliono mantenere una popolazione stabile senza alcuna migrazione. L'Unione europea non è immune da questa tendenza al ribasso, come si intuisce dall'ultimo rapporto pubblicato da Eurostat e relativo al 2022. Il calo demografico europeo, nel caso specifico, va avanti dal 2008, quando nell'Ue videro la luce 4,68 milioni di bambini; 15 anni più tardi, nel Vecchio Continente nascono mediamente 800.000 in meno. In Italia, per la cronaca, il contesto è stagnante da anni e il tasso di fertilità è calato dello 0,3% dal 2019 ad oggi. In ogni caso, nessuno si trova più in difficoltà dei Paesi dell'Asia orientale citati, dove sempre più donne di età compresa tra i 20 e i 30 anni hanno rinunciato agli appuntamenti, al matrimonio e ad avere figli.
La ricetta per l'estinzione
Torniamo nell'epicentro dell'apocalisse demografica. Nel 2018, l’allora viceministro delle Finanze della Corea del Sud, Kim Yong-beom, definì il crollo demografico una “croce della morte”. In Giappone, il primo ministro Fumio Kishida ha avvertito del fatto che il Paese si trova “sull’orlo” di diventare “socialmente disfunzionale”. La Cina, che nel 2016 ha interrotto la politica del figlio unico per incoraggiare le famiglie ad avere più figli, nel 2023 ha perso il primato di nazione più popolosa del pianeta a favore dell’India, dopo che la sua popolazione è diminuita per la prima volta in sessant’anni. Una domanda sorge spontanea: cosa sta succedendo? In generale, i tassi di fertilità tendono a diminuire quando un Paese sperimenta una crescita economica e garantisce migliori condizioni di vita ai suoi cittadini. La crescita economica tende anche ad espandere le opportunità educative, con il risultato che le donne si trovano improvvisamente a mettere in discussione i ruoli tradizionali di casalinga e madre; di conseguenza, sempre più spesso scelgono di evitare del tutto il matrimonio e la gravidanza. In tutto ciò, mano a mano che i Paesi diventano più ricchi, anche il costo per crescere i figli aumenta a dismisura. Il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa) ritiene che le donne guardino al bilanciamento di tre aspetti quando hanno figli: 1) vita familiare e lavoro; 2) reddito e costi per la crescita dei figli; e 3) l’uguaglianza di genere, che può aiutare a condividere il carico di assistenza verso la prole. Detto altrimenti, se il sistema o l’economia di un dato Stato non garantiscono alle donne pari opportunità, potrebbero pensarci due volte prima di avere uno o più bambini. È proprio quello che sta accadendo in Corea del Sud, punta di un iceberg più grande di quanto non si possa pensare.
Cosa succede in Corea del Sud
In Corea del Sud le donne affermano spesso di sentirsi costrette a scegliere tra ambire ad avere una carriera luminosa o una famiglia felice, e così molte di loro eviterebbero di sposarsi. Non ci sarebbe niente di strano nelle scelte personali di singoli individui, senonché le conseguenze delle loro decisioni, soprattutto nel lungo periodo, ricadono a cascata sui loro rispettivi Paesi. Si prevede, ad esempio, che nel 2050 il pil sudcoreano diminuirà del 28,38% rispetto ai valori rilevati nel 2022. La forza lavoro si restringerà di quasi il 35% e persino il personale militare scenderà a livelli di guardia sotto le 500.000 unità. Per meglio capire le cause della debacle demografica made in Korea è utile osservare alcune dinamiche socioeconomiche sudcoreane. Nel 2022, ad esempio, il tasso di disoccupazione per il segmento di età compresa tra 15 e 29 anni si aggirava intorno al 6,4%, più del doppio del tasso di disoccupazione complessivo del 2,9%, e molto al di sopra dei tassi giapponesi del 4,8% per la fascia di età 20-24 anni e del 3,8% per la fascia di età 25-29 anni. Perché questa differenza? Uno dei motivi coincide con l’elevata percentuale di studenti che frequenta l’università, e che porta quindi ad uno squilibrio tra domanda e offerta di lavoro post-laurea. Esiste poi un ampio divario salariale tra il mercato del lavoro primario delle grandi aziende e quello secondario delle piccole e medie imprese. Ebbene, questa polarizzazione del mercato del lavoro si sta inasprendo, ritardando la formazione dei nuclei familiari e quindi la nascita di eventuali figli. Accanto alle dinamiche economiche sopra sintetizzate, rintracciabili del resto anche in Europa, troviamo nuovi stili di vita emersi nel corso degli ultimi decenni. Giusto per fare un esempio, in Giappone le persone danno il loro primo bacio in età sempre più avanzata (attualmente la media si colloca tra i 18 e i 19 anni) e iniziano una relazione anche più tardi. Come se non bastasse, in Asia orientale il pensiero confuciano ha ancora solide radici, e le persone sono solite fare figli soltanto dopo essersi sposate. Solo che, come detto, sempre più giovani faticano a trovare un lavoro stabile, costretti a scegliere se ottenere una valida occupazione o impegnarsi in un matrimonio. E le soluzioni? Le coppie che hanno figli vengono inondate di denaro: da erogazioni mensili ad alloggi sovvenzionati, passando attraverso i taxi gratuiti. Le spese ospedaliere, e anche i trattamenti di fecondazione in vitro, sono coperti dallo Stato per coloro che sono sposati. Eppure questi e altri incentivi finanziari non hanno funzionato, portando il governo a ipotizzare soluzioni più creative, come esentare dal servizio militare gli uomini che hanno tre figli prima dei 30 anni. Il tempo scorre e, secondo i dati del World Population Prospects delle Nazioni Unite, entro il 2050, in tutta l’Asia una persona su tre avrà più di 65 anni. Il motore economico del mondo rischia di incepparsi.