Infrastrutture, tutela del suolo, Pnrr: tante le sfide dell’economia italiana secondo l’ex ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti. Secondo il quale, però, la vera minaccia per il Paese ha un nome e un volto, quello delle disuguaglianze. Con l’ex deputato dell’Unione di Centro, già ministro dell’ambiente (2014-2018) nei governi Renzi e Gentiloni, oggi presidente dell’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti (Ucid), parliamo delle prospettive del Paese. Partendo dagli shock globali e interni che recentemente ha dovuto subire.
Negli ultimi anni l’Italia ha vissuto sfide economiche decisive e shock come la pandemia e la guerra in Ucraina che hanno creato problematiche inaspettata. Come giudica lo stato di salute dell’economia italiana?
C’è stata una particolare resilienza dell’economia italiana, che ha tenuto trend di ripresa più forti delle attese: nemmeno l’inflazione alle stelle e il conseguente rialzo dei tassi sembravano limitare la corsa del sistema produttivo italiano, malgrado la recessione della Germania, le cui catene del valore sono legatissime a quelle italiane. Ora siamo alle prese con la frenata: una contrazione del Pil dello 0,4% per il secondo trimestre dell’anno, la previsione di crescita per l'anno in corco scesa allo 0,9%, l’indice pmi sceso sotto 50, il calo dei prestiti (-3,7% su base annua) e a luglio la prima flessione dell’occupazione, pari a 73mila unità. Il tutto con l’inflazione ancora alta, al 9,6% sul carrello della spesa, e la previsione di tassi alti ancora a lungo. L’Ocse assicura che nel 2024 l’Eurozona assisterà ad una ripresa. Personalmente, vedo il rischio è che dopo lo slancio post pandemico il Paese finisca per arenarsi su ritmi di crescita bassa, vicina alla stagnazione.
Transizione ecologica e digitale, sviluppo del Mezzogiorno, tutela del territorio: in che misura questi piani possono contribuire a un rilancio industriale del Paese?
È uscito da pochi giorni uno studio della BCE, molto ben argomentato: la transizione ecologica porterà alla riduzione dei rischi finanziari. Quindi meno rischi di default per le imprese. E possiamo aggiungere anche meno rischi ambientali incontrollati, penso alle recenti alluvioni in Romagna. Ma servono investimenti ingenti e soprattutto serve una regia credibile, capace di costruire consenso sul lungo termine. Quanto alla digitalizzazione, l’Indice DESI mostra con efficacia la situazione italiana: siamo sopra alla media europea per connettività e integrazione delle tecnologie in azienda. Insomma, ci sono le infrastrutture e le imprese stanno investendo, ma mancano le competenze, il che si ripercuote anche sulla qualità dei servizi pubblici digitali. Manca il capitale umano, sia per le competenze digitali di base, sia per quelle evolute. A lungo si è detto che il tessuto produttivo in Italia è frammentato, fatto da troppe aziende di piccole dimensioni. La digitalizzazione è una grande opportunità per ottimizzare le risorse e per rendersi competitivi malgrado le dimensioni, ma vanno costruite le competenze. Quanto al Mezzogiorno penso sia necessario tornare al modello proposto da De Rita: la dimensione del sociale che sospinge l’economia. Non il contrario. Finora si è confidato troppo nelle soluzioni economiche, dall’alto. Mentre lo sviluppo si fa sempre a partire dai territori.
Il Pnrr è verso la metà del suo percorso. Che sfide lo attendono?
Il Pnrr propone una riforma della pubblica amministrazione, anche in termini di competenze e servizi digitali, mirata a rendere efficiente la macchina pubblica. Il problema è che quella stessa macchina pubblica, ancor prima di vedersi riformata, deve mostrarsi capace di spendere risorse ingenti, in tempi stretti e con procedure di misurazione stringenti. Fino ad oggi, con molte difficoltà, abbiamo evitato i rischi peggiori. Merito anche dell’interlocuzione con l’Europa. La sfida è generare impatto, non solo riuscire a spendere le risorse in arrivo. Non è scontato.
Gli ultimi mesi hanno mostrato sfide importanti per il Paese: crisi infrastrutturale, problemi di dissesto ecologico, carenze di manutenzione di progetti realizzati in passato. Che ruolo può giocare la manutenzione di quanto già esiste in un disegno di politica economica e industriale?
Non confonderei la politica industriale e la spesa pubblica contro il dissesto idrogeologico, per la manutenzione di infrastrutture. Certamente, la spesa pubblica può determinare uno stimolo per l’economia, ma ricordiamoci che abbiamo un debito pubblico elevato: possiamo permetterci di essere keynesiani fino a un certo punto. Non possiamo adagiarci sulle commesse pubbliche, che già coprono 200 miliardi di euro l’anno. Terrei le due questioni divise: da una parte, la necessità che la spesa pubblica per la cura del territorio e le infrastrutture sia ben indirizzata. Dall’altra, mi chiederei quale politica industriale può rendere le nostre imprese più competitive. Penso alle nuove filiere, dall’aerospazio fino all’intelligenza artificiale. Affrontare il grande tema della produttività del lavoro, nodo storico del Paese, che si lega al tema dei salari, colpiti dall’inflazione, ma anche alla competitività delle imprese sui mercati internazionali.
Di fronte alle sfide del recente passato, il tessuto industriale ha tenuto. Dal vostro osservatorio di Ucid, quali ritenete siano le domande più importanti che le imprese pongono ai decisori?
Ucid ha la sua tradizione e la sua cultura, che in Italia è stata presente nei convegni, meno nelle scelte politiche. Crediamo nel ruolo dei corpi intermedi, nel modello della sussidiarietà, che significa dialogo e azione concertata tra tutte le componenti della società – istituzioni, imprese, terzo settore -, nella costruzione di un consenso ampio, capace di superare le barricate tra le parti. Anche in riferimento alle relazioni industriali, crediamo sia il momento di guardare oltre le contrapposizioni novecentesche, prese di posizione estemporanee. Ci sono sfide comuni su cui occorre impegnarsi, penso alla formazione, alla digitalizzazione. Gli interessi di imprenditori e lavoratori hanno spazi ampi di convergenza.
In che misura le imprese come corpi intermedi possono essere al centro di progetti di “sviluppo umano integrale” e fattori di rilancio dei corpi intermedi che spesso sono stati visti in declino in Italia?
È un grande tema. Partiamo col dire che il declino dei corpi intermedi in Italia è relativo. Basta guardare il fatto che la contrattazione collettiva copre ben oltre l’80% del lavoro dipendente. Il problema non è la rappresentatività, ma l’estemporaneità delle relazioni industriali. Ascoltiamo retoriche antiquate, paradigmi pregiudizialmente contrappositivi, quando invece ci sarebbe bisogno di un patto tra forze sociali, orientato a responsabilità e collaborazione. Le imprese possono porsi oggi come importanti erogatori di servizi di welfare, penso alla nursery, agli asili nidi aziendali, ai servizi di mobilità per i dipendenti, alle scelte a sostegno della conciliazione vita-lavoro. Si tratta di scelte di responsabilità da premiare, da incentivare, proprio nell’ottica di quello “sviluppo umano integrale” a cui anche le imprese contribuiscono.
Disuguaglianze e nuove forme di povertà e esclusione sociale. Vede una minaccia per lo sviluppo italiano in questi problemi?
Le diseguaglianze non minacciano solo lo sviluppo economico, ma anche le basi democratiche del Paese. I populismi, le crisi delle democrazie occidentali provengono anche da qui. Con il Governo Draghi l’indice di Gini, che misura proprio le diseguaglianze nella distribuzione del reddito, è sceso consistentemente e così anche il rischio di povertà. A dimostrazione che il welfare incide. Dobbiamo però dire che venivamo da una fase particolare: inflazione bassa, politiche straordinarie di spesa pubblica, al riparo dai vincoli di bilancio, ricorso ingente a strumenti di sostegno dei redditi. Non poteva durare a lungo. E infatti i nodi iniziano a ripresentarsi. La ricetta che UCID può proporre passa per politiche attive del lavoro, politica industriale lungimirante, patto sociale che tenga insieme il Paese.