Era arrivata per soccorrere a domicilio un politico lombardo tuttora in attività, ma ne è uscita con un polso fratturato e lesioni ai legamenti e ai nervi per mano di quell’uomo. Una brutta storia – quella della dottoressa Chiara Viviani, medico anestesista – cominciata più di cinque anni fa, nell’aprile 2018, e finita con un nulla di fatto sul piano giudiziario, con dei danni fisici che forse non si risolveranno mai, con un apparente quanto assordante silenzio (almeno secondo la denuncia) da parte degli organi preposti del sistema sanitario, dei sindacati e delle istituzioni e con l’abbandono dell’Italia e, forse, della speranza. ne è
La storia della dottoressa Viviani, veronese classe 1980, è lunga e complessa e lei la racconta con comprensibile trasporto anche perché non è finita e, per certi versi (quello della tutela della sua persona e dell’adozione di misure per prevenire che quel che le è successo possa capitare ad altri), non è mai davvero iniziata. Una storia di malasanità al contrario: “Quando un medico sbaglia o si presume possa aver sbagliato tutto e tutti si mobilitano per cercare ogni documento o testimonianza a sostegno della tesi accusatoria – ci dice Viviani – mentre quando un sanitario viene aggredito a quanto pare tutti stanno zitti e fanno finta di niente. Anzi, come nel mio caso, magari non mettono a disposizione elementi fondamentali per le indagini”.
La dottoressa racconta di essere stata aggredita durante un turno notturno medico di 118, a domicilio del paziente e in presenza dell’intera squadra sanitaria e volontaria di soccorso, e dei familiari: “Mentre mi accingevo alla valutazione clinica, prima ancora di toccarlo, il paziente, che non rispondeva alle mie domande e apparentemente aveva gli occhi chiusi, mi ha afferrato il polso stringendolo così forte da romperlo e lesionarne di i legamenti. Poi mi ha strattonato verso di sé con una tale brutalità da lesionarmi l’intero sistema nervoso periferico del braccio destro e del collo. Ho urlato per il dolore provato, gli ho ripetuto più volte di lasciare la presa, ma c’è voluto un tempo per me infinito prima di potermi liberare. Purtroppo, a tutt’oggi, dopo più di cinque anni e mezzo, io sono l’unica a pagare sotto ogni punto di vista per un’aggressione fisica durante l’espletamento di un turno di lavoro. Le lesioni mi hanno finora causato un totale di 320 giorni di incapacità totale di lavorare riconosciuta dall’Inail (suddivisi in tre periodi), un intervento chirurgico (più due ulteriori in futuro) che sono stata messa nelle condizioni di effettuare solo una volta che mi sono dimessa dal mio posto di lavoro, e la decisione di abbandonare la mia carriera lavorativa e tutta la vita che avevo in Italia per trasferirmi all’estero”.
L’aggressore, come accennato, è un politico locale lombardo: “All’udienza preliminare penale contro il mio aggressore, tenutasi solo a luglio di quest’anno, lo stesso avvocato difensore lo ha dichiarato completamente sano: dagli accertamenti medici specialistici da lui stesso effettuati, il mio aggressore sarebbe risultato non affetto da patologia alcuna. Per citare ancora l’avvocato della difesa, «non sono un medico, non so dire se il mio assistito fosse capace di intendere e volere in quel momento, ma di certo non ha fatto apposta a cagionare lesioni alla dottoressa. Anche perché il mio assistito è una brava persona e nonno». Nonostante le dichiarazioni dell’avvocato di assenza di patologia alcuna, nonostante la presenza di parecchie incongruenze nella documentazione agli atti e, soprattutto, senza aver richiesto che un perito valutasse la documentazione agli atti, il politico è stato assolto dal giudice dopo soli 12 minuti di udienza preliminare”. Il giudice ha sentenziato il non luogo a procedere “dovendosi fin d’ora escludere la configurabilità della condotta dolosa originariamente ipotizzata e apparendo al contrario ravvisabile un comportamento sostanzialmente privo della necessaria consapevolezza”. In sostanza secondo il gup il politico non avrebbe agito volontariamente o comunque non ci sarebbero stati elementi sufficientemente forti per prevedere ragionevolmente di poter arrivare a una condanna (anche se nessuno nega l’aggressione in sé).
Secondo la dottoressa però varie circostanze non sarebbero state prese in considerazione, anche perché alcuni importanti elementi sono emersi solo successivamente: “La documentazione agli atti presenta numerose incongruenze, incluso un presunto massaggio cardiaco esterno con frattura sternale effettuato dal figlio dichiarato dall’avvocato difensore ma assente sia nella documentazione sanitaria agli atti sia, soprattutto, dalle informazioni che mi erano state date la notte dell’evento. In tutto questo, in più di cinque anni e mezzo nessuno ha mai indagato le reali dinamiche dell’aggressione. Solo poco tempo fa, tramite il mio avvocato, io, a mie spese, ho scoperto circostanze legate alla mia aggressione non riferitemi dalla centrale operativa e negatemi dai familiari. Non posso tuttavia entrare nei dettagli in quanto Areu (Agenzia Regionale Emergenza e Urgenza della Lombardia, ndr) mi ha fornito questo documento accompagnato da una lettera che diffidava dalla diffusione del contenuto. Apparentemente, il documento non sarebbe neppure stato consegnato in Procura tra la documentazione richiesta durante le indagini, o comunque non è stato utilizzato in sede di giudizio”.
"Prendo più farmaci per il dolore della mia vicina 92enne, e quello che ho subito ha delle conseguenze anche sulla mia vita relazionale: con un danno ai nervi come il mio basta un semplice tocco al braccio per avvertire una sensazione simile a quella di una pugnalata. Mi procura dolore persino il soffio del vento"
La dottoressa si ritiene non solo vittima dell’aggressione, ma anche di un sistema prevenzione e gestione delle aggressioni ai sanitari che non viene applicato e che perlomeno palesemente non funziona: “Come dicevo, in più di cinque anni e mezzo nessuno ha mai indagato le reali dinamiche dell’aggressione. Nonostante già nel 2007 le raccomandazioni ministeriali per prevenire gli atti di violenza contro il personale sanitario sottolineino la necessità, da parte delle aziende sanitarie, di revisionare sia gli episodi di violenza segnalati mediante l’applicazione degli strumenti di gestione del rischio clinico (audit clinici), sia la successione di eventi prima e durante l’aggressione, anche per attuare cambiamenti procedurali e azioni di miglioramento, né l’importante struttura ospedaliera pubblica ad alta specializzazione della quale ero dipendente a tempo indeterminato né Areu hanno mai segnalato l’aggressione come evento sentinella agli organi preposti, né hanno effettuato audit clinici o rivalutazione della cascata degli eventi che hanno portato alle mie lesioni severe. Questo ha determinato anche un ritardo nella diagnosi (e nel trattamento adeguato) delle lesioni. Fin da subito, l’amministrazione ed il capo dipartimento dell’azienda ospedaliera, l’ufficio infortuni, il medico legale dell’azienda, i responsabili in azienda del servizio 118, l’amministrazione e la commissione per il rischio clinico di Areu sono stati informati dell’aggressione fisica da me subita, delle lesioni da me riportate (progressivamente aggiornate), e di tutto quello che mi succedeva. Ho specificatamente richiesto supporto e indicazioni sugli step anche tecnici e giudiziari da seguire, senza ricevere risposta o supporto alcuno. Questo significa peraltro che nessuna azione di miglioramento è mai stata applicata perché le circostanze che hanno portato alla mia aggressione non ricapitino a un altro soccorritore. Diversamente, invece di ricevere supporto sono stata costretta a un rientro prematuro al lavoro, come se i miei datori di lavoro non fossero loro stessi medici e quindi teoricamente con le nozioni necessarie da conoscere le conseguenze delle lesioni da me subite: a quanto pare a un medico vittima di infortunio sul lavoro non viene riconosciuta la possibilità di essere egli stesso paziente e il diritto di curarsi. Il rientro precoce ha causato poi la necessità di successivi ulteriori periodi di infortunio e incapacità lavorativa. Solo quando mi sono dimessa e me ne sono andata dall’Italia, sono stata nelle condizioni di potere gestire propriamente le lesioni da me subite in seguito ad aggressione fisica sul posto di lavoro. Anche il rappresentante del sindacato a cui allora ero iscritta era stato informato dell’aggressione e dell’inerzia dell’azienda, ma a quanto pare nel 2018 un’aggressione fisica a un sanitario con lesioni gravi non era considerata di interesse o rilevante. Però ha tentato di propormi l’assicurazione professionale proposta dal sindacato. Per quanto riguarda infine l’essere stata vittima di un lacunoso sistema di gestione degli esiti di aggressione, forse i medici della sanità pubblica non sanno che (perlomeno in Lombardia) in caso di lesioni secondarie ad aggressione fisica tutte le spese sono a loro carico. L’azienda ospedaliera non rimborsa alcuna spesa sanitaria, così come sono a carico del personale sanitario aggredito tutte le eventuali spese legali. Anche quando le lesioni sono riconosciute come conseguenza dell’aggressione fisica subita sul posto di lavoro, come nella mia esperienza, l’Inail non prende in carico come paziente il sanitario aggredito, che è costretto a fare il medico di sé stesso”.
Ma perché è avvenuta l’aggressione? E si poteva prevenire? “Considerate le uniche (non corrette) informazioni che mi erano state fornite sulla presentazione clinica del paziente prima del mio arrivo, l’aggressione pareva altamente improbabile. Con le informazioni invece presenti nel documento di cui non posso rivelare il contenuto, l’aggressione diventava altamente possibile. In pronto soccorso, il sintomo aggressività è persino stato completamente omesso dal verbale del politico. L’aggressione da me subìta è il risultato non di un’azione difensiva (non mi ha allontanata come per paura), ma offensiva (mi ha afferrato il polso stritolandolo e mi ha strattonata con forza verso di sé)”.
Dopo quello che è successo, la dottoressa è andata a lavorare in un’azienda pubblica all’estero: “Non è stato facile abbandonare gli affetti e tutto il resto e, nonostante quello che si crede comunemente, non è semplice iniziare un nuovo percorso lavorativo fuori dall’Italia, dovendo ricominciare daccapo e lasciando una carriera già ben avviata in patria”.
Rimane la frustrazione per tutto quello che è accaduto (e per quello che non è stato fatto accadere), ma rimane anche il dolore. L’elenco delle lesioni e dei danni riscontrati tra braccio, spalla e altro fornitoci dalla dottoressa è lungo quasi una pagina: “Prendo più farmaci per il dolore della mia vicina 92enne, e quello che ho subito ha delle conseguenze anche sulla mia vita relazionale: con un danno ai nervi come il mio basta un semplice tocco al braccio per avvertire una sensazione simile a quella di una pugnalata. Mi procura dolore persino il soffio del vento sul braccio”.
L’augurio è che non finisca nel vento anche questa denuncia pubblica in cui, come si dice con un’espressione abusata ma in questo caso anche fedele, la dottoressa ci mette la faccia: “Mi sono decisa a farla dopo tutto questo tempo in cui ogni mia denuncia o segnalazione tramite le vie preposte è stata ignorata. Limitandomi solo alle telefonate, e-mail e Pec inviate nel 2023, ho più volte cercato di contattare il Ministero della Salute, inclusi i responsabili dell’Osservatorio Nazionale contro le aggressioni agli operatori sanitari, tutti i sindacati e i presidenti dei sindacati che comunemente condannano le aggressioni ai sanitari, diversi politici e la Giunta della Regione Lombardia. L’intento era, ed è ancora, di rendere note le falle del sistema prevenzione e gestione le aggressioni ai sanitari rese purtroppo evidenti da quanto a me successo in questi cinque anni e mezzo. A tutt’oggi, non ho mai ricevuto risposta neppure alle Pec inviate. Se non c’è rivalutazione, non c’è riconoscimento dei punti di debolezza del sistema prevenzione e ovviamente non ci possono essere manovre correttive. Forse se ancora nel 2023 si sente settimanalmente la notizia di un sanitario aggredito o ucciso, forse il motivo è che in realtà a nessun livello c’è un reale interesse riguardo questa problematica. Si dice sempre che spesso contro le aggressioni non viene fatto nulla perché non si denuncia. Io ho denunciato ma questo è il risultato. Finché non cambieranno le cose – conclude Viviani – non credo ci siano le condizioni per tornare a lavorare in Italia, purtroppo”.