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La famiglia nel bosco? L'Abruzzo fa brutto ed è un posto hardcore: terra di rom, pastori e scambisti. Ce lo dice Gabriele D'Annunzio

  • di GDA GDA

25 novembre 2025

La famiglia nel bosco? L'Abruzzo fa brutto ed è un posto hardcore: terra di rom, pastori e scambisti. Ce lo dice Gabriele D'Annunzio
Io, Gabriele D’Annunzio, vero abruzzese, canto la mia terra, un luogo mistico popolato da rom, pastori e scambisti che non potrete mai comprendere. Solo qui una famiglia anglo-australiana poteva scegliere di vivere nel bosco, contro lo stato e contro il patto sociale. Una famiglia nel bosco sì, ma di zingari, pastori e… scambisti. Sì, scambisti sì. E i figli loro, son figli miei. Questa è la mia terra, che vi piaccia o no, non m’interessa

di GDA GDA

Alla terra d’Abruzzi, alla mia madre alle mie sorelle, al mio fratello esule al mio padre sepolto, a tutti i miei morti a tutta la mia gente, fra la montagna e il mare, questo canto dell’antico sangue consacro. Zingari, pastori e scambisti, il popolo ch’erra come l’etterno Ebreo nella terra d’Abruzzi. E ora che osservo da così lontano le vicende dimenticate d’una terra che non esiste, ed è mai esistita, cosa mi proponi, o implacabile padrone del mondo? Una cronaca da commentare ai miei posteri che vedo così agghindati e ridicoli? Cosa vuoi tu da me, l’esaltazione sonante del primitivismo che una famiglia di anglo-australiani in opposizione allo stato, alienata dal patto sociale, pretende senza alcuna arroganza di ricomporre, parola, dopo parola, in un bosco di Rieti? O tu ti sbagli, o io ti confondo con qualcheduno che tu non sei. E mi confondo, perché se il vangelo non m’inganna tu sei l’Avversario, e ti spacci per il figlio di Cristo. Sei tu, Bafometto che mi seduci a rivelar quel che penso di cosa è diventato, anzi è sempre stato, questo luogo infame, patria di intellettuali verbosi, e al medesimo tempo, vagabondi del pensiero, nomadi senza una casa che desse pace alla loro anima tormentata. Vedi Ennio Flaiano, che per tutta la sua vita ha trascorso il suo tempo a concupire nei luoghi della mia letteratura. Discendente di quei fornai che sfornavano un pane, il cui profumo arrivava fin nelle stanze della malata di tifo ritratta da me ne “Le novelle della Pescara”, e che più volte si è dedicato alla cura del gentil sesso nella villa in cui abitava la dolce figlia di Iorio. Vedi quel folle di Giovanni Lindo Ferretti, che dopo la lotta di classe si è dato al cattolicesimo più conservatore, ma pure più barocco e dionisiaco, così da mistificare senza sensi di colpa la propria passione per il vino rosso. Tutti figli miei, in questi sentieri pulverulenti in estate, umidi e scivolosi nell’inverno più gelido che si spezza come rami sotto i piedi di un pastore errabondo sotto la luna crudele. E ora io confesso con le lagrime che mi rigano il volto il ché io pensi de la storia di tale famiglia nel bosco alla quale lo stato italiano – la solita banda di furbacchioni che quando c’ero io portava la corona e poi s’è messo un basco imitando il mio stile che voleva essere altrove – ha portato via i figli. Io confesso quel che penso, per quel che vale, l’amara sentenza.

GDA MOW
GDA at his best

Non vi parlerò né del bene, né del male, ma sono affascinato dal ché una storia simile, non potesse che rivelarsi qui, in Abruzzo, perché l’abruzzesi altro non sono che una banda di rom, pastori e di scambisti. Zingari, per la loro pellaccia dura, il loro mugolare grottesco quando cercano riparo nell’ombra per non ostentare la loro bruttezza alla luce del sole. Zingari, perché ladri, ladri perché pieni di fame. E’ per colpa della loro miseria che il cuore della terra pretende ciclicamente di dar loro il colpo di grazia a suon di disgrazie e terremoti, non riuscendoci mai. Mi duole esser costretto a fare mia la citazione d’un collega lontano da me nel tempo e nello stile, ma Cristo s’è fermato a Rieti. I monumenti che rappresentano alla perfezione quella landa desolata ingravidata dall’Adriatico sono i benzinai e gli autogrill (suprema invenzione dell’oltreuomo Mattei), illuminati e incerti nella notte, specchio di luce corrusca nel giorno, sorreggono l’intera baracca, concentrando il peso di tutto l’universo sulla gobba di quell’omino, barbuto e canuto, che lempie per mestiere gli stomaci d’acciaio delle vetture che non appena rifornitesi della loro linfa vitale, scalpitano per ripartire e abbandonare quel triste e selvaggio deserto inumano che è l’Abruzzo. Non è, quello del benzinaro, il gesto d’un pastore prossimo alla morte? Perché questa terra d’Abruzzi è terra di pastori con camicie a quadri, taglialegna con la coppola, i baffi ricurvi verso il basso come le chiome dei salici piangenti, tabagisti e alcolizzati indagatori dell’incubo, nonché di donne bellissime, sintesi inspiegabile perché armoniosa dei lineamenti nordici, etruschi e poi latini. L’Abruzzo è poi una propaggine dei Balcani, una radice separata della Bosnia emancipatasi per la debolezza di partecipare all’universo. Ne custodisce il mistero in quelle insegne al neon rosa che annunciano sulle buie strade provinciali i numerosi locali per scambisti che tengono vivo l’eros di questo luogo incredibile. I miei insegnamenti un cupo e irrefuggibile destino hanno infuso nel seme dei pastori abruzzesi che nel tentativo continuo d’imitar le mie gesta si sono dovuti specializzare nell’arte del confondere le proprie amanti in un’orgia esistenziale nel lercio di un baccanale cantato e danzato con disgrazia attorno ad un fuoco acceso dentro al bidone della spazzatura come zingari. In tutta la Penisola, la maggior concentrazione di scambisti qui si colloca e il motivo è evidente. Il regista di questa messa in scena non sono io, il Vate ai più, il Comandante per pochi, e infine, GDA come invece vengo chiamato dai giovani rampolli di questo ruggente millennio gravido di violenza, sintesi e velocità, ma un David Lynch in preda ad un desiderio incomprimibile, inesaudibile se non con il denaro, con l’inganno o con la forza della prostituzione sacra ai falò accesi nelle cerimonie misteriche consumate nei boschi d’Abruzzo.

Famiglia nel bosco Ansa
La famiglia nel bosco Foto Ansa

L’Abruzzo è un luogo assurdo, è il regno dell’allucinazione dove l’industria non è nemmeno vagamente un incubo, tantomeno una preoccupazione, essendo inesistente. E se ogni nazione che si rispetti ha i propri zingari, ebbene gli abruzzesi, sono i rom d’Italia ben rappresentati da un valoroso cavaliere della velocità, come Andrea Iannone, che non ha mai nascosto la sua amicizia con la comunità nomade, quando era più piccino. Ed è per questo che io, Gabriele D’Annunzio, detto GDA, abruzzese, zingaro, pastore, arcinoto ed italianissimo scambista li amo e li amerò sempre. Amo e confido anche voi li amiate perché tra l’essere e il nulla hanno scelto di essere nonostante tutte le forze dell’universo congiurassero contro di loro per ridurli al non essere. Come non amarli quando si calano dalle montagne come barbari innocenti e irriconoscibili, e s’insinuano nella civiltà modernizzata per poi distruggerla dall’interno? Non si può non amarli, e non temerli, perché al tempo stesso, gli abruzzesi si mimetizzano nel non essere. Sono invisibili e sono la vera spina dorsale dell’Italia profonda. La storia della famiglia nel bosco, una storia che sembra una favola triste, poteva solamente posarsi sull’Appennino e in nessun luogo altro come neve dell’inverno. Dai lontani deserti infestati di aborigeni dell’Australia, dalle lande desolate e umide dell’Inghilterra, Nathan Trevallion e Catherine Birmingham sono figli miei, e come me, come noi abruzzesi, son rom, pastori e scambisti. Contro lo stato, contro tutto, e per questo, perseguitati, messi in croce come Cristo, che però, ad un certo punto si stacca dalla croce, imbraccia il fucile e si addentra nella trincea.

Andrea Iannone Ansa
Andrea Iannone a folle velocità Foto Ansa

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