“La sinistra è molto in difficoltà”. Ha ragione Giorgia Meloni capo del primo governo di destra-destra dell’Italia repubblicana. È evidente che sia così, con una Elly Schlein segretaria del Pd che è talmente nuova da non essere mai ancora entrata in partita, o con un Giuseppe Conte che, se vogliamo definirlo di “sinistra” (posto che destra e sinistra abbiano oggi un senso che non sia di puro spartitraffico), non tocca più palla manco lui da mesi. Ha così ragione che Nicola Porro, che ieri sera l’ha intervistata nella sua Quarta Repubblica dopo che interviste in tv non ne rilasciava da un pezzo, non ha trovato il coraggio di metterla a sua volta in difficoltà praticamente su nulla. Non scherziamo, oè: non è questione d’ardimento, a Porro questo governo piace, legittimamente piace, e tanto più piace quanto più si rivela, nella “ciccia” delle decisioni anzitutto economiche, “affidabile”, parola-chiave pronunciata dalla premier e che spiega tutto.
Tutto quel che c’è da spiegare nelle parole udite ieri, infatti, è che la Meloni non si premura nemmeno più di mascherare un minimo la contraddizione piena, palese, debordante da ogni angolo e lato, fra il dichiararsi sempre e comunque fedele alle sue promesse, e contemporaneamente ammettere l’esatto contrario. Quella contraddizione originaria per la quale, per restare in sella, anzi, addirittura per poter insediarsi senza “bombardamenti” dei soliti e ambigui “mercati”, agenzie di rating e Unione Europea, ha dovuto dismettere totalmente, ripetiamo totalmente, la sua identità in politica finanziaria di quando stava all’opposizione, e indossare come una seconda pelle l’abito obbligatorio di ogni governo possibile in Italia: l’appiattimento, stile sogliola, al binario obbligato del pareggio di bilancio evitando di fare deficit (da non confondere con il debito pubblico, che a fine 2022 ha raggiunto i 2.762 miliardi, equivalenti al 145% del Pil). Era prevedibile che andasse così? Era prevedibilissimo. Bisognava essere gonzi o in malafede per non sapere che la Meloni, che ha fatto campagna elettorale e l’ha vinta per essere rimasta coerentemente fuori da qualsiasi maggioranza negli ultimi dieci anni, e in particolare fuori dall’ammucchiata del governo Draghi, una volta a Palazzo Chigi sarebbe stata costretta a rimangiarsi la coerenza e sposare in pieno, nelle materie che contano che sono quelle dettate in cifre, l’agenda Draghi. Lo sapeva chi non si fa accecare dallo spirito di curva. E lo sapeva soprattutto lei.
Convinta ormai, in questa fase a ragione, di essere padrona assoluta del campo (“sono a capo di una maggioranza solida, mi do cinque anni come orizzonte”), il fatto di essersi de-melonizzata ora lei rivendica apertamente, come un vanto: “La sinistra dice che c’è una deriva autoritaria se sulla Corte dei Conti proroghi le norme del governo Draghi. Sommessamente osservo che facciamo quello che ha fatto il precedente governo”. Testuale. Ma al tempo stesso, sostiene di non aver tradito la propria coerenza. Come sputare in faccia a uno subito dopo avergli dato una carezza. È Meloni, ma anche Draghi. Ma anche: come il Walter Veltroni dei bei tempi. Per esempio: gli italiani secondo tutti i sondaggi noti sono in maggioranza contrari a continuare a fornire armi all’Ucraina? Me ne frego, proclama la conservatrice per cui la Russia di Putin era un baluardo dei valori tradizionali: “La contrarietà di una parte consistente degli italiani agli aiuti militari all’Ucraina è comprensibile, ma sono disposta a perdere un pezzo della mia popolarità perché se dicessi il contrario per assecondare il senso comune, non assumendomi le responsabilità che ho da capo di governo, e domani mi ritrovassi una guerra più vicina a casa mia, non avrei fatto gli interessi della mia nazione. È la mia coscienza a dettarmelo”. No, non è la sua coscienza: sono i rapporti di forza all’interno della Nato, in cui c’è chi comanda (gli Stati Uniti) e chi obbedisce con un margine più o meno ampio di manovra (noi, bassissimo; i francesi chiaramente già di più, perché da sempre militarmente e nuclearmente autonomi).
Sarebbe stata gradita qualche accenno d’obiezione da parte dell’intervistatore. Ma Porro, il liberale Porro, non può che tifare per una Meloni liberalissima in economia e nelle politiche sociali (via il reddito di cittadinanza per un buon terzo, e per il resto meno soldi, perché tanto “formeremo” i disoccupati: come, con quali soldi, con quali operatori?), e per il resto, chi può pretendere che un giornalista si assuma la responsabilità di domande e critiche sue e solo sue? Eh no, non sta bene. Meglio adottare la tattica paracula di porgere con gentilezza al capo del governo gli appunti dell’opposizione, anzi, della “sinistra”, come se ci si dovesse trasformare nel portavoce momentaneo e non richiesto della parte avversa. In questo modo si evita a priori anche solo un teorico scontro con l’intervistata, perché i rilievi mica sono suoi, di Porro: sono della Schlein, o di chi per essa. “Se faccio un accordo, dico una cosa e la faccio: io non sono l’Italia spaghetti e mandolino che dice di sì e sorride nelle foto e poi si fa fregare tutto o prova a fregarti. Io voglio un’Italia che cammina a testa alta nella storia e credo che con questa capacità di stringere rapporti si portano i risultati”. La dux nostra lux qui rispondeva a una non-domanda su tutti i viaggi (in Etiopia, in Algeria, ecc) che ha fatto in questi duecento giorni e fischia alla guida del Paese. Come se avesse fatto uno sforzo mai prima compiuto a memoria d’uomo. Il punto è che magari non rifilerà nessun bidone agli omologhi stranieri, ma lo ha già rifilato ai suoi elettori. I quali, tuttavia, non sembrano accorgersene perché nel frattempo si riempie loro gli occhi e gli orecchi di tutto quell’ammasso in costante alimentazione di annunci e provvedimenti di bandiera, simbolici e identitari (alcuni anche rilevanti in sé, come la maternità surrogata reato universale, altri francamente demenziali, come le multe per i dipendenti pubblici che usano a capocchia l’inglese, tipo “flat tax”, com’è scritto nel suo stesso programma) che coprono la continuità effettiva con il passato. Giorgia è donna, madre e cristiana. E oggi potrebbe aggiungere draghiana, contiana, lettiana, renziana, berlusconiana, prodiana, su su fino a Ciampi e Amato. È il “vincolo esterno”, baby.