Giorgia Meloni, cogli al balzo le dimissioni della presidente Rai, Marinella Soldi, e fai "una cosa di destra": privatizza la Rai. Se per destra deve intendersi l’impasto obbligatorio di guerra ai senza reddito, liberalizzazioni di bollette e genuflessioni agli Usa, il quartetto al governo (Fdi, Lega, Forza Italia e Noi Moderati, che grazie a Toti e Brugnaro sarebbe meglio ribattezzare Noi Indagati) è destra al cubo. Ma all’italiana: mai fino in fondo. In attesa della flat tax, che è puro Robin Hood al contrario, dov’è finita la tensione verso il libero mercato, panacea di tutti i mali? Perché restare acquattati in un liberismo da pilota automatico, da ragionieri dei conti, da fifa escatologica per i contabili Ue? Per la prima volta nella storia repubblicana, a Palazzo Chigi è insediato un governo di destra dotato, bizze salviniane permettendo, di una maggioranza blindata e di un capo, yo soy Giorgia, che a differenza della buonanima di Berlusconi è priva di conflitti d’interessi, per cui si potrebbe osare. E invece no: premierato e lottizzazioni a parte, in molti campi si marcia a passo di gambero. Altro che passo dell’oca.
Ci sembra di sentirli, i fortunatamente pochi liberalos che confondono sprechi di Stato con diritti sociali: ma quale destra liberale, quella meloniana resta statalista, corporativista, clientelare. Bella forza: siamo in Italia, mica in Inghilterra, o nell’Argentina di Javier Milei. E grazie agli déi, ci vien da dire, al netto di certi parassitismi (vogliamo parlare dei fiumi di quattrini di noi contribuenti finiti ad aziende appaltatrici di opere pubbliche mostruosamente costose, vedi Tav?). E tuttavia, dovrebbe esserci un limite a tutto. Per esempio, all’inguardabile inutilità del cosiddetto “servizio pubblico radiotelevisivo”. Questa formula di nobili origini, a dire il vero, avrebbe ancora più senso oggi, in cui l’offerta di contenuti mediatici è esplosa e segue esclusivamente logiche di mercato, con una proliferazione dominata da grandi oligopolisti - da Mediaset a Sky, da Netflix a Prime - passando per la miriade di emittenti locali e content creator sul web. Ma nella realtà, il “servizio pubblico” non esiste più da un pezzo. Quanto meno se lo concepiamo nella sua accezione corretta: come fornitura di prodotti non asserviti alle esigenze commerciali di quantità (audience, abbonamenti, visualizzazioni ecc), ma all’obiettivo culturale della qualità. E per quanto soggettivo possa essere il criterio per misurarla, non giriamoci attorno: la qualità è possibile, e per l’esattezza corrisponde a quella cosa molto concreta che si chiama sperimentazione, figlia della creatività. Ora, non si pretende che la Rai si trasformi in un covo di avanguardisti di cultura alternativa, per carità. Ma neanche è tollerabile quell’ibrido soporifero a cui siamo abituati, fra "infottenimento" alla Vespa e penosi avvitamenti alla Ballando con le stelle. Da troppo tempo viale Mazzini è una brutta copia della concorrenza (e quando scriviamo brutta, intendiamo proprio brutta, dato che Discovery, Cairo a La7 e perfino il Biscione, sloggiati la D’Urso e Signorini e nonostante la condanna dell’Isola dei Famosi, riescono a far di meglio, fatte le debite proporzioni).
Intendiamoci: nessuna nostalgia per la tv pedagogica e moralista del trapassato remoto. Né trasporto alcuno per la televisione che deve “fare cultura”, e che nella stragrande maggioranza si rivela noiosa, pedante, iniziatica. Sperimentare è l’esatto opposto di tutto ciò. Sperimentale è Domenico Iannacone con la sua trasmissione di storie vissute, ai margini, Che ci faccio qui. Sperimentale, rispetto ai programmi pomeridiani tutti cronaca nera e rosa, è l’approccio serio, ma non serioso, di un Giorgio Zanchini con Quante storie e Rebus. Volendo, pure lo storico e inossidabile, ma non per questo meno mal sopportato Report di Sigfrido Ranucci si potrebbe definirlo, nella sua classica impostazione d’inchiesta, controcorrente, dato che sugli altri canali Rai, di un taglio critico e d’indagine non c’è l’ombra. E poi c’è Valerio Lundini e il suo surrealismo cringe, benché forse un po’ appannato (Faccende complicate). Direte: eccolo, il commentatore sinistrorso che, fatalità, salva solo la programmazione di Rai3. Ma salveremmo anche il ritorno di Fiorello e la sua animalità da showman intelligente, se non avesse deciso di astenersi dal video. E non è colpa nostra se, fra i talk affidati da giornalisti di destra, non se ne ricorda uno che abbia avuto un successo degno di nota in Rai. A parte queste isole concentrate sulla terza rete, il resto è l’abbecedario del trito, dello scontato e del banalizzante. E come diceva sant’Antonio Lubrano protettore della tv di servizio, ri-sorge spontanea la domanda: perché pagare il canone, per avere poi due reti e passa su tre che la parola qualità non la trovano più neanche sul vocabolario? Perché continuare a foraggiare un pachiderma che a sua volta, anziché valorizzare al massimo le risorse interne, foraggia uno stuolo di produzioni esterne? Perché seguitare con questa anacronistica farsa di un servizio pubblico che, scusate la raffinatezza, scade a pubico, dovendo rincorrere contemporaneamente gli inserzionisti pubblicitari, la cui unica e legittima ansia è vedere alto l’indice di ascolto?
Eccellentissima Presidente del Consiglio, ci appelliamo al suo senso di realtà, prima che al suo patriottismo sovranaro: Lei che non ha fatto un plissé di fronte alla recente vendita della telefonìa fissa di Tim, asset strategico mica da niente, a un hedge fund americano, il KKR; Lei che apporrà la sua firma politica alla prossima riforma del Testo Unico di Finanza che, concedendo un potere senza precedenti ai soci minoritari, potrebbe dare il via a un “sacco della banche” da parte straniera; Lei che ha varato tutta orgogliosa una legge per accorciare le liste d’attesa negli ospedali ma finanziandole con una partita di giro finanziaria (i soldi arrivano dalla defiscalizzazione della libera professione degli stessi medici); Lei che, soprattutto, per ragioni squisitamente politiche ha lasciato che il cavallo Rai disarcionasse pezzi da novanta come Fabio Fazio, inguaribilmente faziosi e untuosi collitorti ma in ogni caso, per i proventi aziendali, sempre pezzi da novanta; Lei, riveritissima capa del governo, perché non getta il cuore oltre l’ostacolo e non sbaracca il baraccone? Perché non ci fa dono di una salutare operazione di verità e pulizia, e dà alla Rai le sue reali dimensioni, smantellando tutto quanto andrebbe smantellato, cioè quasi tutto? Il suggerimento, indiretto, lo regala proprio la dimissionaria Soldi. Con dubbio gusto, ma in perfetta compatibilità legale, ancora assisa sulla poltrona di presidente Rai era entrata dalla porta principale della tv statale inglese, la Bbc, nel settembre 2023, come componente del consiglio di holding. Dal 1° settembre 2024, farà parte del Commercial Board in qualità di consigliere non esecutivo. Non siamo certo i primi né saremo gli ultimi a sostenere l’ipotesi di imitare l’esempio britannico, ma perché non pensare a una versione italiana di quel modello, la cui fama mondiale di indipendenza politica e di eccellenza qualitativa è rimasta pressoché intaccata nei cento anni della sua storia? Nella perfida Albione, l’autonomia del servizio pubblico è da sempre garantita dalla nomina regia dei vertici del trust di controllo, oltre che da un organo di vigilanza, l’Ofcom. Dal 2017, il trust si auto dirige, ma è tenuto comunque a sottostare alle Royal Chartes, il documento di indirizzo decennale redatto dalla Casa Reale.
Da noi, l’equivalente consisterebbe nell’attribuire alla Presidenza della Repubblica, di durata settennale e relativamente slegata dalle alchimie delle maggioranze, la responsabilità di nomina degli amministratori Rai. Magari affiancati da un comitato scientifico anch’esso totalmente libero dai partiti (e non, come vorrebbe la pseudo-proposta del Pd, scelti per la maggior parte dai Presidenti delle Camere e dalla Conferenza Stato-Regioni). E di una Rai, magari, asciugata a un canale soltanto o massimo a due, come la Bbc, e finalmente liberata dai compromessi con il triviale, dovuti alla competizione con il privato e al ridimensionamento della tv generalista. Stiamo sognando, lo sappiamo. La residua partitocrazia italiana, proprio perché orfana di identità e linee culturali, è attaccata alla greppia più che mai (e difatti, il rinnovo del cda Rai è fermo da un mese e mezzo solo perché le mafiette partitiche di centrodestra non trovano la quadra su come spartirsi la torta). E allora, in nome del Mercato che tanto piace alla gente che piace, che la destra simil-anglossassone faccia la destra simil-anglossassone, e metta in vendita l’IpocrisiRai. E che sia finita. Ma tu guarda se ci tocca fare i Nanni Moretti da’ Garbatella, ahò.