L’ultimo caso di amichettismo meloniano in Rai è scoppiato sull’assunzione di un collaboratore candidato più di dieci anni fa con Casapound e di un altro nome il cui padre sarebbe amico dell’amministratore delegato Roberto Sergio. Reazione: una verifica interna per capire se di amichettismo si tratta. Ma può un capo-azienda cadere dalle nuvole così? Ed è politicamente trasparente una gestione che lottizza come tutti, ma cercando di non farsi sgamare? Tanto vale che si proceda alla staffetta di cui si parla da mesi: al posto del tardo-democristiano Sergio, l’attuale dg Giampaolo Rossi, meloniano di ferro. Cioè un’operazione-verità. Sulla fame di posti del governo di turno
Serve un signor Rossi al timone di quel caotico transatlantico che è la Rai. L’amministratore delegato, Roberto Sergio, è un comandante troppo democristiano per comandare sul serio (e lo diciamo scusandoci con i democristiani d’antan, maestri di gestione del potere). L’ufficiale in seconda, il direttore generale Giampaolo Rossi, sarebbe invece l’uomo giusto al posto giusto, in una Rai sotto melonizzazione spinta: non solo è ideologicamente più organico al partito di Giorgia Meloni, ma soprattutto è più inserito in quell’ambiente, diciamo. Ne condivide l’humus e gli umori, spesso attraversati da una prepotente voglia di rivalsa sull’“egemonia” di sinistra.
Egemonia che, come si sa, nel concreto significa lottizzazione. Non a caso da mesi circola la voce di una staffetta fra i due, che si scambierebbero gli incarichi contestualmente al cambio di presidenza (che passerebbe da Marinella Soldi all’attuale componente del cda Simona Agnes) e a nuove girandole di nomine nel corpaccione di viale Mazzini.
L’occasione sarebbe data dal rinnovo dei quattro consiglieri d’amministrazione di spettanza parlamentare, che però è ferma in attesa che il 4 luglio il Consiglio di Stato decida se la legge del governo Renzi di riforma del vertice Rai del 2015 sia incostituzionale o no, come sostiene il ricorso firmato dall’ex presidente Roberto Zaccaria e associazioni fra cui Articolo 21. Ma perché sarebbe meglio Rossi di Sergio? Perché sarebbe un’operazione-trasparenza: toglierebbe il residuo velo ipocrita all’assalto alla diligenza Rai da parte di Fratelli d’Italia.
L’ultimo scandaletto sta lì a confermarlo. Succede infatti che, stando a Repubblica (“Assume il figlio dell’amico e un deejay di Casapound. Bufera sull’ad Sergio, 1 luglio 2024), in una pattuglia di cinque programmisti multimediali assunti di recente dalla Rai tramite l’agenzia interinale Adecco ci siano tal Matteo Tarquini, figlio di Giovanni amico storico di Sergio, e Ferdinando Colloca, bodypainter e deejay alias Mr Ferdy, collaboratore già da due anni della tv di Stato, candidato non eletto con Casapound alle comunali di Roma nel 2013.
Due fratelli di quest’ultimo, fra l’altro, lavorerebbero già in Rai, come programmista regista uno e nell’area digital l’altro. Perché scandaletto? Perché non è la prima e non sarà l’ultima volta che la televisione pubblica, in cui di volta in volta a pigliarsi il grosso della torta è, come noto, l’inquilino temporaneo di Palazzo Chigi, gli organigrammi riflettono il grado di vicinanza politica al governo di turno. Amichettismo compreso, al netto della professionalità dei singoli casi.
Ma allora chi è a capo del board non dovrebbe cascare dal pero e, come ha fatto Sergio, far partire un “audit interno”, che equivale ad ammettere di non avere avuto il controllo della situazione. Per verificare cosa, poi? Che uno dei prescelti sarebbe figlio di uno che, se davvero suo amico, conosce benissimo?
Il messaggio che manda all’esterno Sergio, in pratica, è questo: sono l’amministratore delegato, quindi in teoria il vero decisore, ma non sono del tutto responsabile di quel che mi accade sotto il naso. A rigore, anche il direttore generale Rossi dovrebbe saperne qualcosa, a meno che il termine “direttore” abbia perso la sua valenza, che sarebbe quella di dirigere. Ma gerarchia aziendale vuole che a metterci la faccia sia l’ad, non il dg. Ed è per questo che sarebbe meglio invertirli di poltrona: se Rossi è, come è, la persona di fiducia della schiera meloniana, tanto vale conferire i veri poteri a lui.
Basta con i mascheramenti: se l’occupazione delle caselle ed eventuali parentopoli o amichettopoli devono essere, che almeno la firma politica sia chiara e palese. Anche, e fuori da ogni ironia, per il bene dello stesso Sergio, che sembra messo lì apposta per fare da capro espiatorio, più che da effettivo timoniere.
I tentativi di mettere pezze ai buchi con il bilancino sarà pure obbligato, dovendo amministrare una nave irta d’insidie (i sindacati, Usigrai in testa, sul piede di guerra, le lobby personali sedimentate negli anni, il malcostume di esternalizzare produzioni non valorizzando le risorse interne, la pressione da spoil system dei filo-governativi). Ma dove va a finire, allora, l’orgoglio di un a destra-destra che per la prima volta ha in mano il boccino? E questo sì, che lo diciamo ironicamente.
Vedasi un altro caso, anche questo recente: quello di Serena Bortone. La conduttrice del talk domenicale Che Sarà su Rai 3, dopo aver protestato pubblicamente sui social per la censura allo scrittore Antonio Scurati che il 25 aprile scorso avrebbe dovuto leggere la sua concione anti-governativa (censura che poi si è rivelata una mezza censura), è stata “punita” prevedendo, nella prossima stagione televisiva, il suo trasferimento al sabato sera a condizione che di politica non parli. Il che è una forma di censura. Ma occultata.
Da un lato, Sergio sostiene non senza ragione che qualunque azienda avrebbe preso provvedimenti contro una dipendente che critica la sua azienda su Facebook. Dall’altro, si tiene stretta la dissidente, ma azzoppandola. Cos’è questo, se non equilibrismo finalizzato solo a evitare altre polemiche che comprensibilmente sarebbero grandinate dalle pseudo-barricate dell’opposizione?
Pseudo, in quanto l’opposizione di Pd e M5S sulla Rai è puramente parolaia: a conti fatti, a parte la direzione del Tg3 (titolare Mario Orfeo, appeso alle beghe fra i due partiti) e qualche trasmissione-simbolo come Report, per altro abbastanza autorevole da difendersi da sola, le minoranze hanno abbandonato la partita Rai.
C’è però, nella Meloni e, giù per li rami, nei suoi uomini una sindrome schizoide, che mescola l’appetito di potere con il terrore di manifestarlo. Una cosa a metà tra la famelicità di fazione e la sudditanza psicologica al perbenismo da par condicio. Da un lato, l’anno scorso si fa fuori a priori un Filippo Facci, reo di aver scritto su Libero un’oggettiva volgarità sulla ragazza al centro di un’indagine per violenza a carico di uno dei figli di Ignazio La Russa: e sia. Ma dall’altro, si gestisce la spartizione di incarichi cercando di non darlo a vedere, per poi quasi vergognarsene, o trovare compromessi che danno un colpo al cerchio e uno alla botte.
Intendiamoci: la logica dell’alternanza fra casacche politiche in Rai sarebbe da abolire tout court. Il carattere pubblico della tv pubblica non dovrebbe voler dire che al cambio di governo cambia anche in automatico la linea. “Pubblico”, a casa nostra, significa di tutti: non solo del governo in quel momento in sella. Ma finché resta questo sistema di derivazione partitocratica, quanto meno sia applicato con aperta onestà intellettuale.
Le mani di Fratelli d’Italia si allungano ogni giorno di più su viale Mazzini? Bene (cioè male): ma allora che le ditacce affondino scopertamente. Anche per far emergere di più i reali scontri dietro le quinte, che avvengono fra i partiti della stessa maggioranza (FdI, per esempio, gradirebbe più spazio in radio, che oggi vede la Lega troppo ben posizionata rispetto al suo peso elettorale, specie dopo le elezioni europee). Con Rossi alla guida, non ci sarebbero più alibi o infingimenti: l’impronta di Fratelli d’Italia su ogni decisione diventerebbe di evidenza palmare. Rossi di cognome, neri di nome e di fatto.