«Vorrei iniziare dicendo che il 2024 non è stato un buon anno per Stellantis». Così, secco e diretto come un ceffone, John Elkann ha aperto l’assemblea annuale degli azionisti del gruppo. Nessuna circonlocuzione da consigliere di amministrazione in doppiopetto, nessun vezzo da capitano d’industria imperturbabile: solo l’onestà amara di chi ammette che il colosso nato dalla fusione tra FCA e PSA sta ballando sull’orlo del burrone. A turbare i sonni del presidente, e con lui di investitori e lavoratori, non è solo il disastroso bilancio del 2024, ma un orizzonte tecnologico e politico che, per dirla con le sue stesse parole, impone “un percorso irrealistico di elettrificazione, scollegato dalla realtà del mercato”.
Ma andiamo con ordine.
L’elefante nella sala: l’addio di Tavares
La frattura si è consumata a dicembre, silenziosa ma devastante, come una faglia che scivola nel sottosuolo finché non esplode. Carlos Tavares, architetto della fusione, stratega instancabile, ceo idolatrato dagli azionisti per le sue doti da tagliatore di costi e creatore di margini, ha lasciato il timone. Elkann non gira intorno alla questione: «Il disallineamento tra il consiglio di amministrazione e il nostro ceo Carlos Tavares ha portato quest’ultimo a lasciare l’azienda all'inizio di dicembre del 2024». Parole misurate che nascondono tensioni profonde, probabilmente insanabili. Una crisi di visione, prima ancora che di governance.
Al suo posto, un comitato esecutivo ad interim guidato da Elkann in persona. “Abbiamo lavorato con tutti i nostri team nella gestione quotidiana dell'azienda”, ha detto, come a rassicurare gli animi. Ma la transizione è appena cominciata, e il nuovo ceo, promesso entro la prima metà del 2025, dovrà raccogliere i cocci di un’annata catastrofica.

Conti amari e azionisti nervosi
I numeri, come sempre, parlano la lingua più impietosa: ricavi netti a 156,9 miliardi di euro, in calo del 17%; consegne globali giù del 12%; utile netto crollato del 70% a 5,5 miliardi. Non è un bollettino di guerra, ma poco ci manca. Il dividendo, pur confermato (0,68 euro per azione contro l’1,55 dell’anno precedente), è magra consolazione per chi guarda al futuro con crescente inquietudine.
E poi c’è il “capitolo Tavares”: un compenso di 23,1 milioni sul 2024, più una buonuscita da 12 milioni che verrà liquidata nel 2025. Una cifra che, per quanto ridimensionata rispetto al passato, ha indignato non pochi soci: il 33,07% si è espresso contro l’approvazione del Remuneration Report. Uno su tre. Una frattura non trascurabile.
Il nodo della transizione ecologica: tra ideali e realtà
Ma il punto più dolente, quello che fa tremare le fondamenta dell’intero settore, è la transizione energetica. “Le normative sulle emissioni di CO₂ hanno imposto un percorso irrealistico di elettrificazione”, ha dichiarato Elkann. “I governi europei hanno ritirato, a volte bruscamente, gli incentivi all'acquisto e l'infrastruttura di ricarica rimane inadeguata. Di conseguenza, i consumatori tardano a passare ai veicoli elettrici”.
Tradotto: abbiamo puntato tutto sull’elettrico, ma la scommessa rischia di schiantarci contro il muro. Perché senza colonnine, incentivi stabili, e una filiera solida alle spalle, le auto a batteria restano un miraggio per il consumatore medio. Peggio: diventano un lusso da early adopter, non una scelta di massa.

Il grande sorpasso cinese e la marginalizzazione dell’Occidente
E mentre l’Europa arranca, la Cina galoppa. “Per la prima volta, il mercato automobilistico cinese sarà più grande di quello americano ed europeo messi insieme”, ha ricordato Elkann. Il Dragone non solo produce di più, ma lo fa con una velocità, una coerenza industriale e un supporto statale che l’Occidente sembra aver smarrito nei meandri della burocrazia e del populismo regolamentare.
Negli Stati Uniti, intanto, “l’industria automobilistica è gravemente colpita dai dazi”, con il 25% sui veicoli, ma anche costi maggiorati su alluminio, acciaio e componenti. Una zavorra in un mercato già ipercompetitivo.
Ultima chiamata per l’industria occidentale
“Sarebbe una tragedia, perché l'industria automobilistica è fonte di posti di lavoro, innovazione e comunità forti”, ha detto Elkann con tono quasi elegiaco. Ma le sue parole suonano anche come un avvertimento: “Non è troppo tardi se gli Stati Uniti e l'Europa intraprendono le azioni urgenti necessarie per promuovere una transizione ordinata”.
Un appello alla ragione, alla lucidità politica, che però si scontra con la realtà di governi sempre più miopi, ostaggio delle promesse verdi senza infrastrutture verdi, e con un’Asia che, silenziosamente, ha già dettato le regole del gioco.
Il futuro dell’auto – e forse dell’intero Occidente industriale – si gioca adesso. Tra scosse e scuse, tra rilanci e buonuscite, Stellantis è solo il primo canarino nella miniera. E se non si cambia rotta, il rischio è che a restare senza ossigeno non sia solo il gruppo di Elkann. Ma un intero continente produttivo.