Ho deciso di passare qualche ora a vagare in stazione Centrale, a Milano. Si parla e straparla tanto della (poca) sicurezza nel capoluogo meneghino e ho voluto vedere coi miei occhi la realtà, in modo da poterla raccontare al bar sotto casa con cognizione di causa e vena polemica alimentata da fatti e non da leggende metropolitane e fake news banali. Dalle 19 alle 23 ho iniziato ad andare su e giù per la piazza di fronte alla stazione come un ungulato in Val Brembana, ma con la stessa carica erotica di un comodino nella sezione “Offerte” dell’Ikea: felpa grigia del ’95, orrendi jeans blu, scarpe da ginnastica di incerta filiazione, cappellaccio grigio e borsetta a tracolla di un disgustoso rosa cipria. A venti metri da me il venerabile Moreno Pisto, direttore e capo supremo di questo magazine, si è assicurato che nessuna banda presente facesse di me una vittima del mercato delle schiave bianche. Misericordioso. Non ho fatto quasi in tempo a scendere dalla macchina, parcheggiata in una delle vie laterali, che una coppia di ragazzi nordafricani mi si è avvicinata per chiedere nell’ordine: da accendere, una sigaretta in più, gangia (marijuana). A fronte del mio “No” generale mi sono state offerte: a) compagnia; b) droga. Non ho nemmeno risposto e ho allungato il passo verso una camionetta dei carabinieri.
Accanto alle forze dell’ordine un’ambulanza e fuori dall’ambulanza una piccola fila di ragazzi extracomunitari in attesa di assistenza. Nonostante l’abbigliamento degno di una che doveva scalare il Monte Rosa a mani nude e senza budget, mi hanno squadrata tutti. Mi sono allontanata guardandomi intorno e cercando di decidere in quale direzione andare. Mi sono avvicinata all’ingresso della stazione e nell’ombra, attaccati alle pareti, tre quarti degli spacciatori della zona parlottavano tra di loro. Se li guardi più di un secondo loro ricambiano lo sguardo: alcuni ti fanno cenno di avvicinarti per venderti sostanze stupefacenti, altri si limitano a soppesare quello che vedono cercando di capire se valga o meno la pena seguirti per farti la borsa o lasciarti perdere. A loro non conviene fare casino con una donna con i carabinieri così vicino, ma se per caso la pochette vale la candela, qualcuno ti segue. Un ragazzino semiventenne mi ha seguita per un paio di metri, giusto per capire se poteva avere un senso la mia borsetta a tracolla, ma ha mollato il colpo quasi subito. Giustamente.
Mi sono incamminata verso una delle vie laterali, puntando una delle fermate dell'autobus. La sensazione di venire continuamente osservata era bella presente: passando accanto a dei clochard, un gruppo di volontari improbabili mi ha lanciato un’occhiata cercando di capire se fossi una ladra o una pazza a camminare da sola senza apparentemente una meta, in quella zona. Un ragazzo in bicicletta con un fortissimo accento arabo mi si è affiancato: “Vuoi droga? Sei sola?”. Mi sono fermata a comprare un accendino in uno dei baracchini storici per la vendita di panini e cianfrusaglie. Il ciclista se n'è andato e io sono rimasta con delle gomme alla fragola e uno zippo verde.
All’alba delle 21.30 avevo quasi finito le sigarette. E non mi era successo nulla. La sensazione costante di essere in pericolo però non mi aveva ancora abbandonata, anche se effettivamente nessuno aveva ancora fatto la cazzata di esagerare. “Vuoi roba? Mi fai compagnia? Sei da sola?”.
Mi sono avviata verso l’interno della stazione. Gente che andava e veniva. Accanto all’ingresso principale, spalmati contro i muri, gruppi di occhi squadravano la gente che entrava e usciva. Ma i carabinieri erano davvero troppo vicini e troppo armati.
Alle dieci mi sono seduta alla fermata del tram. Il numero nove. Una comitiva di ragazzetti particolarmente rumorosi era impegnata a valutare un Rolex rubato di recente. Uno di loro, il più alto, ha iniziato a guardarmi. Continuava a fissarmi la borsa. Facendo finta di niente mi passava davanti, fingeva di guardare il telefono e tornava indietro. Io tenevo lo sguardo basso e lo monitoravo con la coda dell’occhio. Ho messo l’iPhone nella tasca interna della giacca.
Mi sono alzata e mi sono messa a chiacchierare col conducente del mezzo.
“Ogni tanto scatta qualche rissa. Ma il problema non è questa zona, troppa polizia, non vogliono casini. Alle 23 se ne tornano tutti a casa. Il problema sono le vie laterali.”
Il tempo di scambiare due parole con l’autista e il gruppetto alle mie spalle si era dileguato.
Mi sono avviata verso il mio mezzo, una fantasmagorica C1 grigia, astutamente parcheggiata in una delle vie laterali.
Le 22.30 mi sembrava un buon orario per rincasare e tirare le somme: “Ok, zona pericolosa ma la polizia disincentiva parecchio.”
Mentre camminavo a testa bassa una donna ha iniziato a urlare.
A cento metri da me la tizia era appena stata derubata del suo telefono.
Ho accelerato il passo. “Bella sei da sola?”
Sono entrata in un tabaccaio ancora aperto. Ho preso un caffè, ho aspettato qualche minuto e sono arrivata al mezzo.
Tornando a casa ho riflettuto.
Ero vestita da schifo, non come la maggior parte delle pendolari che in uniforme da ufficio tornavano in città.
E nonostante la mise improbabile almeno sei persone si erano avvicinate per attaccare bottone. Alle sette di sera.
Centrale non è un posto per donne, è evidente. La polizia disincentiva parecchio. Ma non così tanto. Basta spostarsi di 300 metri dai loro presidi e la tentazione di farti del male è più forte della paura d’avere problemi con le forze dell’ordine. Ho cercato d’immaginare cosa farei se dovessi fare avanti e indietro da lì tutti i giorni, la sera.
Ho ringraziato il cielo di non lavorare in ufficio e di avere orari estremamente flessibili.
La soluzione onestamente non l’ho ancora trovata.
E a quanto pare non solo io.