Nessuno può dire se la tregua a Gaza, approvata dalle parti il 16 Gennaio, dopo un’accelerazione nei negoziati mediati dal Qatar, durerà saldamente oppure no. L’estrema destra israeliana, incarnata dai ministri Ben Gvir e Smotrich, minaccia la caduta del governo; dal canto suo Netanyahu sembra propenso ad assicurare la ripresa dei combattimenti dopo la liberazione degli ostaggi. Già nelle ore immediatamente successive all’ufficializzazione della tregua, da Tel Aviv sono giunti segnali minacciosi e ad accuse ad Hamas di volerla far saltare. Anche se il cessate il fuoco venisse soffocato in culla, poco cambierebbe agli occhi delle analisi di chi scrive: i fatti di questi giorni hanno dimostrato alcune cose.
La liberazione degli ostaggi può essere il frutto di un negoziato, e non del pandemonio di bombe su Gaza che anzi ne ha messo a rischio la vita stessa. Che la tregua regga o meno, si dimostra come la liberazione degli ostaggi non è mai stata la priorità di Netanyahu – avrebbe negoziato da subito, come a gran voce chiedono settori della società civile israeliana e gli stessi famigliari. Obiettivo di Netanyahu era prolungare la guerra per prolungare la propria vita politica e far scordare gli errori che hanno portato al 7 ottobre. Quanto alla distruzione di Hamas, sin qui l’operazione Gaza è stato un altro fallimento: molto di più hanno fatto gli omicidi mirati e le decapitazioni, sia contro Hamas e che contro Hizballah. Israele ha mille volte dimostrato micidiale efficacia: ancora una volta, come mai si è scelto di radere Gaza al suolo e non di concentrarsi sul pressare Hamas mediante la tattica delle decapitazioni?
Con l’arrivo di Trump, il re si è mostrato nudo: il miliardario newyorkese aveva promesso di riportare a casa gli ostaggi ed ha sicuramente pressato in tal senso. Da capire quanto ha promesso a Israele in cambio di un apparente cedimento: l’Iran stesso? Trump è un alleato di ferro di Israele, non di Netanyahu come individuo. Le incognite non sono meno dei lumi.