Il Marocco del calcio mostra i due lati di un Paese è al tempo stesso “decolonizzatore” e colonizzatore, e questa Coppa del Mondo lo ha dimostrato. Decolonizzatore, perché prima squada che ha, con orgoglio, rappresentato un continente intero, l’Africa. Portando fino alle fasi finali della competizione una squadra formata da figli della diaspora richiamati all’identità nazionale e guidata da un marocchino Doc come Widad Redragui. Colonizzatore, perché Rabat tale è lontano dai campi da calcio, nella grande politica internazionale. Dunque attenzione a sovrapporre troppo sport e politica. Chi scrive è il primo ad apprezzarne i continui nessi, ma dare colore eccessivo in campo extracalcistico all’epopea dei Leoni dell’Atlante al Mondiale rischia di dimenticare l’elefante nella stanza. Chiamato Sahara Occidentale.
A molti questo termine non dirà nulla. Ma parliamo di una regione di 266mila chilometri quadrati, oltre tre quarti di quella italiana, schiacciata tra il Marocco, con cui confina a Nord, l’Oceano Atlantico e la Mauritania che il Marocco rivendica come suo territorio dalla fine della colonizzazione spagnola negli Anni Settanta. Promuovendo, di fatto, una vera e propria pulizia etnica contro la minoranza saharawi, antica popolazione berbera che abita la regione. Il Sahara Occidentale è nella lista delle Nazioni Unite dei territori non autonomi. All'Onu il Sahara Occidentale detiene un posto di osservatore ma su mezzo milione di abitanti gli saharawi sono ormai una minoranza nella loro terra, contesa tra la Repubblica Araba e Democratica proclamata dal Fronte Polisario in guerra con Rabat e sostenuto dall’Algeria, che controlla un quarto del territorio, e l’amministrazione marocchina che ha proclamato tre province nel territorio.
Il governo marocchino sovvenziona le province sahariane sotto il suo controllo con carburante a basso costo e sussidi vari, per placare il dissenso nazionalista e attrarre immigrati dal resto del Paese. Migliaia di saharawi vivono nel Campo profughi di Tindouf, in Algeria, ove ha sede il comando del Fronte Polisario. Nel dicembre 2020 il presidente statunitense Donald Trump ha firmato una proclamazione con il riconoscimento della sovranità del Marocco sulla regione, nell'ambito della normalizzazione dei rapporti diplomatici tra lo stesso Marocco e Israele; si tratta dell'unico Paese occidentale ad aver preso tale posizioni. Ed è un paradosso nel paradosso il fatto che i giocatori marocchini scendano in campo con la bandiera palestinese, causa unificante a livello popolare nel mondo arabo, rappresentando una nazione che di fatto, su scala ancora più larga, occupa una terra contesa. Si può certamente criticare l’approccio di Israele alla questione palestinese, ma certamente il popolo che per il mondo arabo è oppresso in questo scenario ha un’autorità nazionale politica a cui fare riferimento, al contrario degli saharawi che vivono in una fase di continua precarietà.
L’Ong Western Sahara Resource Watch (Wsrw) da tempo denuncia un’aggressione che prende forma per mezzo dei “bombardamenti con i droni sui profughi in Algeria e del saccheggio delle risorse dei territori saharawi occupati dal Marocco”. Wsrw denuncia che “per aumentare l’afflusso di coloni marocchini e per “sviluppare” il territorio, il Marocco ha realizzato grandi opere infrastrutturali che il popolo saharawi non ha mai richiesto”. Autostrade, reti energetiche, porti: tutto serve a attrarre cittadini marocchini sovvenzionati dallo Stato. I coloni marocchini hanno gradualmente sostituito i circa 200mila cittadini Saharawi scappati all’estero in una delle più ampie operazioni di sostituzione mai compiute e sono stati reclutati grazie a una serie di incentivi economici e la “corsa alla terra”. Tutto questo mentre, negli ultimi trent’anni, almeno 800 persone tra oppositori e dissidenti Saharawi sarebbero stati uccisi o fatti sparire per aver protestato contro Rabat. Storie di ordinario colonialismo in un territorio che, dai graffiti rupestri di Tifariti antichi di 10mila anni, un panorama geografico mozzafiato e perle come la più grande colonia al mondo di foche monache nella città di La Guera, offrirebbe spazio per uno sviluppo inclusivo fondato su accoglienza e turismo. E in cui invece il tallone del Marocco, colonizzatore e decolonizzatore al tempo stesso, schiaccia l’antica popolazione nomade che popola la regione.