Nicolas Sarkozy ha rivendicato come “crudele ma inevitabile” la spinta con cui assieme alla cancelliera tedesca Angela Merkel Parigi decise di “sacrificare”, testuali parole, Silvio Berlusconi dalla carica di presidente del Consiglio italiano nel 2011. Lo scrive l’ex presidente francese nel suo nuovo saggio “Il tempo delle battaglie", da poco uscito Oltralpe, in cui rivanga le scelte prese ai tempi dell’Eliseo. Ammissioni che mettono i brividi e gettano un’ombra sinistra su quel drammatico finale di 2011 contraddistinto da crisi del debito, rincaro dello spread, impennata dei Btp e sommovimenti politici. Conclusisi con l’avvicendamento di Berlusconi con Mario Monti il 16 novembre 2011. “I mercati hanno capito che noi auspicavamo le dimissioni di Berlusconi. È stato crudele, ma necessario", scrive Sarkozy, glaciale. A Bce, Fmi e investitori fu affidata l’opera di seppellimento del governo italiano. Il resto è storia: austerità, crisi sociale, shock politico.
In qualsiasi altre grande democrazia rivelazioni del genere inviterebbero ad aprire commissioni d’inchiesta e dibattiti politici. In Italia il dibattito pubblico sembra invece abbastanza sedato su questi temi. Perso nella sostanziale accettazione dei controlimiti di una democrazia “commissariata”. Avente i suoi cardini nella tutela speciale a cui l’Italia, per la sua posizione strategica, la sua strutturazione economica e la sua natura di cerniera tra Occidente e resto è stata sottoposta fin dai tempi della Guerra Fredda.
Questo vuol dire che potenze straniere decidono ogni sfaccettatura della nostra vita interna? No, non sarebbe possibile. Il caso è diverso. Europeismo e atlantismo sono piuttosto i limiti del campo di gioco in cui l’Italia si muove. Le decisioni di Bruxelles e Washington modificano, deformano, comprimono a seconda delle circostanze questo terreno. All’Italia poi la scelta di conformarsi a queste modifiche, pena il rischio di danni strutturali se sceglie la navigazione in acque sconosciute. Nel 2011 l’Italia poteva contare sul sostanziale appoggio Usa nel rifiuto di ulteriore rigore e austerità: al G20 di Cannes Barack Obama liquidò con un “I think Silvio is right” Sarkozy e la Merkel che gli facevano pressione per spingere l’Italia a accettare il commissariamento del Fondo monetario internazionale guidato dalla transalpina Christine Lagarde. Ma la pressione di austerità e rigore, unita alla volontà francese e, in secondo luogo, tedesca di affossare il governo Berlusconi IV prevalse anche sulla garanzia americana, che come ha poi ricordato Giulio Sapelli si manifestò per l’Italia col sostegno Usa alla nomina di Mario Draghi alla Banca centrale europea.
Berlusconi pagò la sua posizione verso la Russia, l’insubordinazione della guerra di Libia e la volontà di discutere sul cieco rigore europeo: lo ha ricordato anche Romano Prodi in un’intervista rilasciata all’ex direttore de Il Sole 24 Ore Roberto Napoletano nel libro “Il Cigno nero e il Cavaliere bianco” uscito nel 2017. In cui emerge la grave spinta transalpina sull’Italia, interiorizzata da Giorgio Napolitano e dal Quirinale, per l’interventismo africano mal digerito dal Cavaliere. Prodi, che da ex premier e presidente della Commissione Europea questi fatti li conosce, è tornato di recente a parlare del tema in un intervento a Otto e Mezzo riferito al governo Meloni. Giorgia Meloni, ha detto Prodi, è salda al governo perché ha scelto un filoamericano Antonio Tajani come titolare degli Esteri e un “brussellese” come Giancarlo Giorgetti all’Economia. La cui fedeltà a Usa e Ue si può scambiare senza che il risultato non cambi. “Queste sono scelte obbligate: se no sarebbe già caduta”, il chiarissimo commento di Prodi a Lili Gruber.
Parliamo della stessa logica che emerge dal libro di Sarkozy. Quella che vede l’Italia essere vista nel mondo più come la più grande delle piccole potenze che come la più piccola delle grandi potenze. E in cui le classi dirigenti hanno bisogno di un saldo vincolo internazionale per essere legittimate. Quanto abbia pesato la volontà di Sergio Mattarella di mantenere saldi i vincoli euroatlantici in occasione della nascita del governo Conte I e del governo Draghi o quanto, ad esempio, la caduta del governo Conte II fosse legata all’avvicendamento tra Donald Trump e Joe Biden alla Casa Bianca è sotto gli occhi di tutti. Non tutto è “geopolitica”, sia ben chiaro. Ma le grandi dinamiche internazionali toccano Paesi di primo piano come l’Italia. È inevitabile. E Sarkozy, nel suo cinismo nei confronti di un Berlusconi defunto che non può controbattere, non fa che confermare una realtà strutturale.
Più grave di queste dichiarazioni, certamente, sono però alcuni correnti di esterofilia congenita insite in larghe parti dell’élite politica, culturale e intellettuale italiana. Spesso mutevoli nei riferimenti e nelle dinamiche di fondo, ma trasversali tra destra e sinistra. Dall’innamoramento congenito del centrodestra dei primi Anni Duemila per l’America a guida repubblicana e Israele, che portò a seguire a ruota l’interventismo neoconservatore tra Iraq e Afghanistan, all’europeismo lirico di un certo mondo progressista, i casi sono noti. Ricordiamo a tal proposito lo stesso Berlusconi fare profusione di occidentalismo sulla scia di George W. Bush nel 2001 e nel 2003, ma anche esponenti del centrosinistra innamorarsi perdutamente della Francia macroniana negli anni successivi. Tanto da portare il Partito Democratico, nel 2019, a simpatizzare con Parigi durante la crisi diplomatica legata ai Gilet Gialli e alla visita di esponenti pentastellati ai tempi del governo Conte I e un ex esponente dem come Sandro Gozi candidarsi addirittura con il partito di Emmanuel Macron alle Europee.
Ricordiamo l’uso strumentale che di debito, spread e “giudizio dei mercati”, quindi della finanza euroatlantica, viene fatto da ogni partito all’opposizione come strumento di contrasto ai governi avversati. Il frutto avvelenato del 2011 che più volte l’Italia ha dovuto assaporare. Oppure ricordiamo la congenita tendenza dei partiti italiani a cercare referenti in ogni voto di piccola o media taglia che va in scena in Occidente. La sinistra italiana, ad esempio, si è perdutamente innamorata dell’iberico Pedro Sanchez, mentre la destra nostrana proprio su Sarkozy ebbe un biennio di innamoramento dopo la sua ascesa all’Eliseo nel 2009. Di fronte a questo provincialismo congenito, resta un campo da gioco internazionale delimitato da altri. E di cui bisogna essere consci, per fare di necessità virtù. Fermo restando che gli errori storici, come quello di Sarkozy in Libia, presto o tardi sono nodi che vengono al pettine, è indubbio che l’Italia deve gestire pesi e contrappesi delicati sulla scena globale che spesso limitano la possibilità d’azione delle sue élite politiche. Spesso addirittura con il loro stesso consenso.