Ha ragione da vendere Ottavio Cappellani: nelle movenze delle soldatesse israeliane che su Instagram, tutte contente, ancheggiano e cantano: “È condensato il nostro caro vecchio maltrattato pensiero occidentale, il pensiero democratico e liberale, il pensiero che non accetta dogmi”. Verissimo: per chi confonde il pensiero con la propaganda, che è esattamente il contrario del libero pensiero. Bastava documentarsi un minimo, per sapere che la proliferazione di video su TikTok con belle ragazze in uniforme dell’Edf (l’esercito di Israele) va avanti da anni non per provocazione intellettuale o ironia, ma per una semplicissima e banalissima strategia comunicativa. Lo Stato che oggi a suon di bombe fa strage di civili palestinesi ha bisogno, come ognuno arriva facilmente a capire, di diffondere messaggi a proprio favore. Lo fanno tutti: Occidente, Hamas, Cina, Russia, chiunque. Israele ha la particolarità di essere una società giocoforza militarista, che per ragioni di necessità anzitutto numeriche (sono in tutto 8 milioni di persone, meno del Veneto e dell’Emilia-Romagna messe assieme) deve arruolare anche le donne. Basta una rapida scorsa sui motori di ricerca per vedere come le forze armate israeliane abbiano spesso sottolineato con soddisfazione la partecipazione femminile al servizio militare, lodando la parità di genere in divisa. Anche se l’Edf nelle sue linee guida proibisce “contenuti inappropriati su Internet”, di certo non può che vedere di buon occhio le produzioni, ufficialmente autonome, di fanciulle che davanti a un tank mostrano il volto ilare e leggero (se mai ne esistesse uno) della guerra. Anche un infante capisce che ciò serve al reclutamento, ma soprattutto a “normalizzare” l’arruolamento. Perché un militare, uomo o donna che sia, quello fa: la guerra. In più, è anche così che si vuole marcare la differenza con la plumbea condizione della donna dall’altra parte, sotto il nemico islamico, con il suo armamentario di veli assortiti (ma non tutti ugualmente diffusi: il famigerato burqa, ad esempio, è esclusivamente afghano, minoritario, e di uso antecedente ai pur sessuofobi Talebani). Ora, a parte il fatto che Hamas è un partito sì islamista, ma il cui consenso è derivato dall’essere l’unica alternativa ai laici di Al Fatah che, per motivi che per brevità non riassumiamo, avevano deluso la maggioranza dei palestinesi, la “questione femminile” ci porta dritti al nocciolo del problema.
Una bella figliola che sorride e ammicca è il miglior modo, specialmente su Internet, per contrabbandare l’uso delle armi (che, prima o poi, uccidono qualcuno) per un piacevole balletto. Vale a dire che la femminilizzazione della violenza è il format forse più subdolo per catturare l’attenzione, deviarla dalle conseguenze del contenuto (in questo caso, far passare il conflitto in corso come una scampagnata di modelle) e spacciare surrettiziamente l’idea che una donna israeliana, specie se carina, quando ammazza un palestinese nell’attuale modalità di sterminio, è un po’ meno complice di crimini di guerra del suo commilitone maschio. Oltre all’ovvio militarismo, qui c’è anche del sessismo da quattro soldi bucati. Come rispetto della donna, non c’è male. Dice: ma sono loro stesse che si prestano, che si divertono a offrirsi in queste auto-rappresentazioni, che sono divertenti più o meno come ridere in faccia a un bambino dilaniato dai bombardamenti. E si potrebbe aggiungere: il prezzo che una democrazia paga a se stessa è pagar dazio pure all’idiozia. Sorvoliamo per un momento sulla dicitura “democrazia” se riferita a Israele, che per legge dal 2018 è uno Stato, testuale, dei soli ebrei: la deriva nazionalista (se non apertamente razzista) di Tel Aviv è cosa nota. E facciamo finta di non aver spiegato che si tratta di comunicazione strategica, comprensibile, certo, ma non per questo camuffabile da spensierato divertissement, né in alcun modo giustificabile, a meno di non abbandonarci al cinismo più conformista. Il punto è che, in nome del “pensiero democratico e liberale”, non solo si assolve, ma addirittura si inneggia alla manipolazione, cadendo nel giochino dell’apparente innocenza di video propagandistici.
Per carità, niente di nuovo: farsi intortare dalla macchina bellica che, in parallelo alla guerra sul campo, spara i suoi colpi nella guerra delle immagini, è costume così diffuso che quello di cui stiamo parlando ne è solo una ennesima riprova. L’importante, da capire qui, è che la seconda è funzionale alla prima. Manipolare l’immaginario, anche con filmatini (che però sono virali, cioè psicologicamente molto più invasivi ed efficaci del discorsone guerrafondaio di turno) è uno degli strumenti per sostenere le operazioni di combattimento. Marketing spicciolo, se si vuole. Ma non innocuo. E tuttavia, passi financo questo. Affrontiamo quindi l’ultimo nodo: il confronto fra noi e loro. Noi, i buoni, il settimo cavalleggeri dell’Occidente (superiore perché liberale, democratico e bla bla bla), saremmo dalla parte della ragione, possiamo permetterci la libertà di boiata, di scherzo, di scherno, e anche di offesa all’intelligenza e alla decenza. Loro, i cattivi islamici, con quella loro cupa shariah, fatta di precetti per noi inconcepibili, sono in torto per il solo fatto di essere tali, di essere diversi da noi. Se uno studiasse, saprebbe che nel teatro israelo-palestinese il fondamentalismo religioso si è sovrapposto alle cause storiche del conflitto, da entrambi le parti (Arafat, lo storico leader palestinese, era un laico, e fra gli israeliani, dal sionismo in origine altrettanto laico, gli estremisti biblici sono una minoranza, benché arrogante), perciò questa contrapposizione, molto in voga da chi ama semplificare perché fa più comodo, alimenta l’incendio anziché cercar di spegnerlo. Ma è proprio in generale che si falla pesantemente. Chi scrive non ha nessuna particolare simpatia per l’Islam, e nemmeno per gli altri due monoteismi (pur riconoscendosene discendente, come del resto tutti noi europei). Ma la nostra superiorità ce la mettiamo sotto le scarpe, ogni qual volta trasformiamo le nostre libertà, di parola, di stampa, di riunione, di organizzazione, precisamente in dogmi, in articoli di fede esportabili. Non perché non debbano rimanere, per noi, inviolabili, ma perché se usate per sdoganare la banalità del male e dell’orrore, non hanno più niente a che fare con la democrazia, se correttamente intesa come il sistema migliore finora mai inventato per esercitarsi nel senso del limite e dell’autocritica. Noi, liberi fin tanto che possiamo criticare non solo gli altri (che è facile), ma ancor più noi stessi. Come civiltà e come individui. Coloro che da occidentali criticano l’Occidente, invece, vengono tacciati, quando va bene, di incoerenza, ma più spesso di connivenza con l’avversario ideologico, di essere amici dei terroristi e degli integralisti. Questa, in fondo, è una forma di ingenuità, oltre che naturalmente di piccineria morale e bassezza politica. Ma d’altronde, non ci si poteva aspettare di più da chi si bea di restare ipnotizzato dalla canzone di un dj israeliano intitolata, mentre ogni giorno si fa la conta dei cadaveri, “Tutto bene”, cantata da una ragazzina con un mitra in mano. Per simili ingenuotti dal fanatismo ridens, solo compassione.