Dovete leggerlo, questo manuale di istruzioni sulla distruzione. Anche voi, soprattutto voi che nulla sapete di Eduard Limonov (con l’accento sulla seconda o). Nome d’arte di Eduard Veniaminovich Savenko, questo russo all’ennesima potenza, estremo e dunque estremista, scrittore autobiografico che ha figliato romanzi come un coniglio, mille vita in una (vagabondo a New York, intellettuale a Parigi, volontario in ex Yugoslavia, agitatore in patria, punk, detenuto, sempre canaglia, sempre outsider), nel libello appena uscito per i tipi di Bietti, “Grande ospizio occidentale”, tradotto da Andrea Scarabelli e curato da Andrea Lombardi, ha riassunto in poco più di 200 pagine un’invettiva contro il nostro modello di vita che, con qualche minimo sforzo da parte del lettore meno avvezzo, può essere considerata un’eccellente introduzione al genere apocalittico anti-occidentalista militante. Se invece già avete letto – segnateveli, ché altrimenti a che servono le recensioni, a parte all’ego del recensore? – “L’Impero del Bene” di Philippe Murray, “Il male americano” di Alain De Benoist e Giorgio Locchi, “L’era del vuoto” di Gilles Lipovetsky, “Il vizio oscuro dell’Occidente” di Massimo Fini, tutto Christopher Lasch, tutto Michel Houellebecq, e andando a ritroso, tutto Céline e “La grande paura dei benpensanti” di George Bernanos nonchè, of course, la colonna portante Nietzsche, allora il libello che avrete fra le mani vi dirà poco di nuovo, nella sostanza. Ma ve lo dirà in forma smagliante, trascinante, seducente.
Come se Limonov fosse lì davanti a voi a scandirvi in un comizio-fiume le verità più odiose su voi stessi, su noi stessi. Su quanto siamo non solo schiavi, manipolati, inebetiti, storditi, ma soprattutto indeboliti, svirilizzati, Malati. Tutti, anche i ricchi, potenti e famosi, che lui chiama gli Amministratori. Su quanto il Popolo sia da sempre barabbesco e vigliacco, un auto-imbroglio per solfeggiarci la cantilena della “democrazia liberale”. Su quanto la civiltà di origine giudaico-cristiana, trapassata in liberal-capitalistica, abbia fondato la sua sicurezza da “Reich millenario” sul complesso della Vittima, per cui a una ragionevole maggioranza di benestanti corrisponde una minoranza di disagiati e sfruttati da un lato, e un’altra minoranza di privilegiati e sfruttatori dall’altro, in una disuguaglianza accettata grazie a un certo comfort generale, che blinda e puntella il sistema. Su quanto gli anti-conformisti, gli Agitati, siano espulsi, a volte fatti fisicamente fuori (Gheddafi preclaro esempio, ma anche Guevara, o Pasolini), altre volte commercializzati e assorbiti in veste di santini e gadget (i punk), altre volte ancora scambiati per rivoluzionari mentre rivoluzionari non erano (gli hippie, i beatniks, ecc), o semplicemente, come accade alla gran parte delle opere e dei personaggi di vero valore, ignorati. Su quanto il sesso sia “sovrastimato”, la musica pop un “mezzo di abbruttimento”, le ideologie “morte” tenute in vita come foglie di fico per gonzi, l’esistenza “digitalizzata”, resa numero, bit, informazione quantificabile e rivendibile, e il Piacere e la Prosperità siano l’alpha e l’omega finali di un modo di non vivere, di vegetare, di tirare a campare, di basculare fra lavoro, tv, cinemino e vacanzetta col permesso del padrone.
Scritto negli anni ’90, quando le spire di Internet non avevano ancora avvolto le masse nell’ordito del mondo a portata di telefonino, con la sua brava serotonina artificiale in tasca, il pamphlet di Limonov centra senz’altro la diagnosi: l’umanità occidentalizzata, sarebbe a dire americanizzata, è una sterminata mandria di animali addomesticati, la cui reattività è sedata dal mix di tranquillanti ed eccitanti – il nostro stile di vita, controllato da una violenza soft, morbida - che privano l’uomo della naturale aggressività, dell’energia tramite la quale ribellarsi e “prendere il potere”. È una tesi, come si accennava, ampiamente e ripetutamente sostenuta in varie salse, ed è vera, nella misura in cui stanno lì a dimostrarla con glaciale oggettività la preponderanza di malattie non trasmissibili, l’uso massiccio di psicofarmaci, la vertiginosa crescita della solitudine, la denatalità galoppante e, in cima a tutto, seppur non misurabile, l’indifferenza, del tutto amorale, per ingiustizie palesi e squilibri inumani che oramai sono percepiti come sfondo del paesaggio. Ma il teppista Limonov mostra anche i suoi limiti là dove confonde la necessità, anche questa onestamente obiettiva, di recuperare il senso profondo che hanno dolore e sofferenza, fonte di vitalità da un punto di vista anzitutto biologico, con la fascinazione per il maschio virile che va in guerra o alla rivolta come fosse un gioco. Forse bestemmiamo perché fu un dissidente anti-putiniano, o magari proprio per questo, ma oggi forse Limonov farebbe il tifo per la brigata Wagner.
È qui, solo qui, che si può dar ragione al suo pseudo-biografo Emmanuel Carrère quando lo definì un “fascista” (inteso in senso culturale, antropologico, Limonov, piuttosto, era lui sì rossobruno, sia pur con venature libertarie, e soprattutto era un avventuriero). È sicuro, certo, che, vuoi per la cesura dell’atomica, vuoi per la comfort zone in cui ci rimpinziamo di grasso, non riusciamo più neanche a capire il “culto degli eroi” di cui Limonov ha nostalgia. Ma imbracciare le armi è una scorciatoia che può valere per qualcuno di limonovianamente agitato, non l’esito di una seria visione tragica della vita, che comporta la responsabilità di distruggere quel che va distrutto, ma anche di costruire, di umanizzare, di mettere dei limiti. Con pazienza, cioè a dire l’aristocratica capacità di sostenere il pathos, la tensione dei conflitti. Interiori e sociali. Limonov, una nuova “morale responsabile” la evoca, la invoca, la desidera, ma poi, spremendo il limone, alla giustissima critica che muove al mood eternamente adolescenziale che ci infantilizza e rimbecillisce, non fa che contrapporre un’etica da esteti del putsch e della sommossa, omettendo che gli uomini e le donne (secondo lui “sopravvalutate”) sono anche animali sociali, comunitari, istintivamente empatici. Non è solo dall’impulso aggressivo che viene la rigenerazione, viene dalla capacità di immedesimazione, di amare (ma “anche l’amore, bisogna impararlo”, si legge nella “Gaia scienza”). È proprio la biologia degli animali più sviluppati a insegnarlo: la natura non è socialmente darwinista, e non è nemmeno una gerarchia di potere in cui l’unico criterio è la forza. Non siamo coccodrilli. È l’appartenenza, e il senso di identità che ne deriva - questa è la vera morale naturale, per dirla con gli anarchici. A quale appartenenza pensa, Limonov? Semplice: non ci pensa. A lui basta vagheggiare non meglio precisate “minoranze” che guideranno la riscossa. Immagina l’azione, la pura azione, senza soggetto. E senza progetto. E allora questa analisi politica dell’occidentale già vecchio da giovane, specie quando fa il giovane da vecchio, va letta esattamente con gli occhiali con cui va letto il George Orwell di “1984” (ma aggiungeremmo anche lo splendido, e vitalista, “Omaggio alla Catalogna”), bersaglio che fa da filo conduttore polemico in questo Limonov postumo: come sana letteratura, come buona letteratura, e ogni buona letteratura, anche quando febbricitante e caustica come quella limonoviana, o ironica e virilmente compassionevole come quella orwelliana, aiuta a guardarsi allo specchio. Non a cambiare il mondo, o non certo in un rapporto causa-effetto. Limonov è un grande agente dissolvitore di illusioni, ma difettava di ironia tragica. Come del resto tutti gli uomini di azione più che di pensiero.