C’era una volta John Elkann, leader illuminato che si presentava alle platee internazionali come il paladino del Green Deal, pronto a sposare la rivoluzione elettrica con l’entusiasmo di chi promette un futuro pulito, sostenibile e rigorosamente a batteria. Oggi, lo stesso Elkann che solo pochi mesi fa magnificava la “responsabilità storica” del settore automotive nella decarbonizzazione, si erge a censore della normativa europea, chiedendo a gran voce quella “flessibilità” che suona tanto come una retromarcia tattica. Lo ha fatto a Torino, sul palco dell’Automotive News Europe Congress, dove il presidente di Stellantis ha snocciolato dati e lamentele: dall’escalation dei costi imputata all’“iper-regolamentazione” Ue, ai numeri impietosi del mercato europeo, che nel 2019 contava un milione di auto vendute sotto i 15 mila euro e oggi non arriva a 100 mila. Per Elkann, servono regole “smart”, meno burocrazia e più possibilità di tornare a fare piccole auto alla portata di tutti, sulla scia delle kei car giapponesi. Un’invocazione che maschera con toni ragionevoli la crisi di un settore che, stretto tra il boom dei marchi cinesi e la lentezza delle infrastrutture europee, fatica a tenere fede ai suoi stessi proclami. E così, tra il dire e il fare della transizione green, Stellantis e il suo presidente sembrano scegliere la strada più comoda: quella del rinvio, delle deroghe, delle norme ritagliate su misura per difendere margini e quote di mercato.

Il doppio registro di Elkann si fa evidente quando, nello stesso intervento, rassicura sullo zelo elettrico del gruppo – “abbiamo in programma 14 nuovi lanci a batteria, investiamo in gigafactory e infrastrutture” – salvo poi smontare pezzo per pezzo il modello regolatorio europeo che fino a ieri esaltava. Non è passato molto da quando, dalle pagine del Financial Times e dai palchi di Davos, il presidente di Stellantis si dichiarava fiero di essere in prima fila nella corsa all’azzeramento delle emissioni, ma oggi la musica è cambiata: ora il Green Deal viene descritto come un cappio normativo che ingessa ingegneri (uno su quattro, dice Elkann, lavora solo per inseguire le regole) e gonfia i costi a danno dei consumatori. Viene da chiedersi dove finiscano le convinzioni ambientali e dove cominci il realismo da consiglio d’amministrazione, quello che spinge a giocare su più tavoli: rassicurare Bruxelles sull’impegno green e intanto spingere per norme più morbide che salvaguardino utili e piani industriali. La proposta di una normativa che favorisca piccole elettriche low cost alla giapponese — le evocative kei car — suona come l’ennesima toppa cucita su un tessuto industriale logoro, più che come una strategia di lungo respiro. Alla fine, l’auto europea rischia di perdere la partita non per colpa delle regole Ue, ma per le incoerenze di chi le regole prima le benedice e poi le rinnega quando il conto si fa salato. Elkann invoca “libertà di scelta” per i consumatori, ma sembra soprattutto chiedere libertà di manovra per un’industria che, dopo anni di spot green, ora teme di restare schiacciata sotto il peso delle sue stesse promesse.