Ci sono le guerre che si riconoscono subito. Per intenderci: quelle classiche, brutali, portate avanti a suon di missili, droni e bombe, come quella in corso tra Russia e Ucraina. Poi ci sono le guerre a bassa intensità, dove non c'è un fronte di battaglia chiaro e i giochi sono gestiti da attori non statali, e quelle che iniziano e finiscono in una manciata di giorni (vedi lo scontro tra Israele e Iran). Esiste però anche un altro tipo di guerra. Alcuni, i più colti e incravattati, la chiamano Nuova Guerra Fredda – rigorosamente in maiuscolo per riferirsi alla prima Guerra Fredda combattuta da Usa e Urss dal 1947 al 1991 - ma forse ha più senso definirla guerra invisibile. I protagonisti sono Stati Uniti e Cina, ovvero le due super potenze globali che, sotto gli occhi di tutti ma evitando di scendere direttamente in campo, stanno silenziosamente dividendo il mondo in due grandi sfere di influenza: una filo Washington; l'altra filo Pechino. Non è un lavoro semplice visto che per riuscire nell'impresa è necessario attrarre numerosi partner e mantenere a galla i propri; eliminare le pedine dell'avversario e invischiarlo in crisi indotte; scatenare tensioni in aree strategiche e poi fiondarsi lì a rubare il posto all'altro. Questa guerra è insomma una specie di Monopoli della geopolitica con regole non scritte e tante variabili imprevedibili.

Definita la cornice (la guerra invisibile in corso) e individuati i protagonisti del quadro (Usa e Cina) non resta che tratteggiare i contorni del dipinto e colorare la tela (individuare crisi e tensioni). Per esempio vi siete chiesti che cosa stia davvero succedendo in Serbia? Da quelle parti nelle ultime settimane è esplosa una grave crisi politica e sociale, con proteste di massa che stanno attraversando il Paese, in particolare a Belgrado, Novi Sad, Nis e altre città. La mobilitazione è nata in seguito al crollo del tetto di una stazione ferroviaria a Novi Sad, che ha causato 16 morti, ma è rapidamente diventata un movimento molto più ampio contro la corruzione, la mancanza di trasparenza e il crescente autoritarismo del governo guidato da Aleksandar Vucic (tho, guarda un po'? Filo russo e cinese). Migliaia di studenti, insegnanti, lavoratori e cittadini si sono riversati in piazza chiedendo elezioni anticipate, dimissioni dei responsabili del disastro e riforme strutturali che garantiscano maggiore democrazia, indipendenza delle istituzioni e giustizia sociale. Ma c'entra solo la voglia di democrazia? Vucic, che respinge ogni accusa, ha bollato i manifestanti come estremisti e ha parlato di presunte interferenze straniere; qualcuno, insomma, che starebbe mobilitando la massa contro un governo non proprio filo occidentale. Simile lo scenario in Kenya, falcidiata da manifestazioni di massa, principalmente guidate dai giovani della Gen Z, originatasi inizialmente per la morte in custodia del blogger e insegnante Albert Omondi Ojwang avvenuta l’8 giugno, seguita dalla tragica fine del venditore ambulante Boniface Kariuki, ucciso da un proiettile sparato dalla polizia il 17 giugno a Nairobi. Questi eventi hanno catalizzato la rabbia popolare contro la brutalità della polizia, la corruzione governativa e il deterioramento delle condizioni di vita, aggravate dalla legge finanziaria del 2024. A proposito di economia, la Cina è il principale creditore del Kenya – per la cronaca: un Paese strategico nel contesto africano e “conteso” da Washington e Pechino - avendo investito miliardi di dollari in infrastrutture locali, come la ferrovia Nairobi-Mombasa, e in progetti stradali, molti dei quali legati alla Belt and Road Initiative. Le proteste popolari si sono anche scagliate contro il peso crescente del debito estero, che grava sulle finanze pubbliche e che ha portato a tagli e nuove tasse, rendendo Pechino una figura indirettamente centrale nel malcontento popolare.

In Asia l'ultima crisi tra Thailandia e Cambogia: il primo un Paese filo Usa che si dice abbia accolto importanti attività da parte della Cia - come l'unità di raccolta di intelligence congiunta Nsa/Cia nell’ambasciata statunitense di Bangkok e stazioni di intercettazione satellitare sparse nel Paese – il secondo uno Stato nettamente entrato nell'orbita cinese e pronto a fornire a Pechino l'utilizzo della fondamentale base navale di Ream, situata a Sihanoukville, che consentirebbe al Dragone di proiettare la propria potenza navale nei mari del Sud-Est Asiatico. È successo che lungo il confine thai-cambogiano i militari dei due Paesi hanno intrattenuto uno scontro a fuoco per questioni inerenti a vecchie rivendicazioni territoriali. Pare che i soldati cambogiani stessero scavando trincee in aree off limits quando i thailandesi hanno risposto stizziti. Risultato: la prima ministra della Thailandia, Paetongtarn Shinawatra, non è stata in grado di gestire il dossier con il governo cambogiano. Anzi: la Corte Costituzionale del Paese l'ha sospesa dall'incarico a seguito di una telefonata trapelata tra lei e l'ex leader cambogiano Hun Sen, nella quale la signora criticava un alto ufficiale militare thailandese in occasione della disputa frontaliera. La conversazione è stata considerata una violazione degli standard etici e della Costituzione thailandese. Bangkok, solida piattaforma statunitense, rischia di essere risucchiata dall'instabilità. Nel frattempo Taiwan si sta rafforzando militarmente temendo un'invasione cinese più volte ipotizzata dagli Usa. L'Europa, rimasta ormai ai margini del grande gioco globale, si affida a battitori liberi: il Regno Unito, che adesso punta sull'Indo-Pacifico, e la Polonia, fresca di un maxi riarmo (Varsavia spende il 4,7% del pil in Difesa). In tutto questo la Russia di Vladimir Putin intende chiudere la guerra in Ucraina (abbandonata da Trump) conquistando gli ultimi territori rimasti in sospeso. E, chissà, magari aspetta di infilarsi nelle zone d'ombra contese da Usa e Cina in Africa e nel Sud-Est Asiatico. Dove Mosca non è affatto disprezzata...
