Si è parlato molto del fatto che a Donald Trump non hanno dato il Nobel per la Pace. Beh, è normale, sarebbe stato molto più adeguato un Oscar per la pace. È un’idea che funziona, e solo per questa ragione il premio andrebbe istituito, dato che non esiste. Tutto sommato potrebbe essere utile. Una sorta di Tapiro d’oro internazionale per le figure di m**a e questo genere di scivoloni diplomatici che, comunque, ci stanno. La pace è una cosa complessa e non si può fare centro al primo colpo, è un percorso di tentativi, di errori. Però il fatto è che la politica si sorregge su qualcosa di evanescente, etereo, ovvero il racconto. Vero o falso che sia. L’importante è che funzioni. Fin’ora l’aliturgia che ha prevalso è quella per cui a Gaza ormai s’è fatta la pace. Non importa quanto fragile, la pace sta lì e non la puoi più toccare. Per quanto ci riguarda, Netanyahu può pure tornare a bombardare civili, terroristi, donne bambini, eterosessuali, metrosessuali, disabili. La pace non la si può toccare, quindi i giornali finché potranno faranno finta di niente, d’altronde è stato fin troppo faticoso impegnarsi a seguire questo sanguinoso conflitto. Non c’è fretta di tornare a urlare, a gettare benzina sul fuoco delle contestazioni, degli scioperi. Il troppo è troppo. Siamo tutti così pigri, annoiati, che non c’è più spazio per il sangue in tv. Ora è tempo di pace, anche se virtuale. È tempo di cinema, di grandi feste, e bisogna tenere su la maschera di cera.
Trump con trecento milioni di dollari e tante ruspe, operai, muratori, imbianchini (gli imbianchini della Casa Bianca sono il cuore del potere americano), architetti e bla bla bla, è alle prese con l’edificazione di un’enorme sala da ballo vicino allo studio ovale. Potremmo azzardarci a dire che le feste dell’Impero prossimo alla fine sono le più devastanti, ma saremmo solo gli ennesimi profeti di sventura di cui è affollata ogni epoca. E non lo siamo. Non siamo nemmeno degli ottimisti, ce ne stiamo lì seduti con le gambe a penzoloni sul baratro ad osservare quel che succede là fuori. Forse c’è bisogno di una nuova guerra, perché altrimenti il pubblico rischia di annoiarsi. Le concessionarie pubblicitarie sono state molto chiare con i direttori dei telegiornali, se non scoppia una guerra nuova qua vi spostiamo tutti in seconda serata. E a pranzo, a cena? Per pranzo si avrà finalmente uno spazio per Striscia La Notizia, che diventerà un programma a copertura globale, con un esercito di Staffelli inviati in giro per il mondo a consegnare le statuette dell’Oscar per la Pace – altra versione del Tapiro d’oro – a tutti i governi in guerra, attualmente una sessantina, privilegiando, naturalmente le guerre più rilevanti secondo il televoto. Dopodiché a cena non vi preoccupate, perché abbiamo già La Ruota della Fortuna con Gerry Scotti. E il cinema? Sarà qualcosa di americano, ma di quel tipo che ci ha trasformati in un esercito di esaltati. Rambo, Terminator, questa roba qui. Non sarà più sufficiente riciclare i vecchi super-eroi. Il mito del progresso è ormai in declino e l’epica contemporanea ha bisogno di eliminare la scienza, il raziocinio. Bisogna ripartire dall’esperienza e dal naturalismo. Ai mutanti X-men, a Spiderman, Batman, Hulk, abbiamo bisogno eroi in carne e d’ossa che abbiano un cranio da criminale. La finzione non è più sufficiente a fondare il mito, occorre spargere del sangue vero per tornare ad avere speranza nella vita, e non nella morte. Ci vogliono uomini di Stato al tempo stesso attori e militari. Uomini di spettacolo e di guerra. Ricordate che nei primi mesi della guerra in Ucraina, Sean Penn andò in Ucraina a donare la statuetta dell’Oscar a Volodimir Zelensky? Molti presero in giro il capo di stato ucraino, al comando di uno stato armato fino ai denti, nella sua sfida a Golia la Russia, proprio dagli Stati Uniti. Ecco, quella statuetta ora è un testimone, è l’Oscar per la pace e il vincitore come migliore attore protagonista di questa messa in scena potrebbe essere Donald Trump.
Anche se, a pensarci bene, quella statuetta andrebbe consegnata un po’ a tutti. Ai coprotagonisti, come Netanyahu. Agli attori con ruoli minori, il Presidente Emmanuel Macron – alla moglie il premio per i costumi – oppure Re Carlo d’Inghilterra, come migliore interpretazione per il riconoscimento della Palestina, stato inesistente, alibi di ferro per la nostalgia coloniale dei mandati in Libano e Giordania. E poi a tutta la troupe, registi, operatori di macchina, macchinisti, giornalisti, giornalisti uccisi, opinionisti ancora in vita. Premio per la migliore sceneggiatura poi ai servizi segreti di tutto il mondo, che non sono riusciti a raggiungerci per ritirare il premio in quanto troppo impegnati a scrivere le prossime puntate, ma ci hanno mandato una lettera di ringraziamento che non possiamo aprire a causa del sigillo di Stato. E infine, per il migliore soprammobile internazionale, la Cina, che se ne starà lì a non fare un bel c**o di niente finché l’astronave aliena camuffata da Cometa 3l-Atlas non lancerà un segnale in codice che solo Xi-Jin Ping e Papa Leone XIV riusciranno a decifrare, e solo a questo punto, potremo mettere la parola fine a quest’americanata di film che è diventata la politica internazionale. La messa in scena è finita, andate in pace, anzi, andate in guerra.