Un capitombolo «ridicolo», «una buffonata di livelli epici». Sono i commenti che ci arrivano da giornalisti di Repubblica che chiedono di non essere nominati, fonti di dissenso interno a Largo Fochetti, a margine di una bufera che da 24 sta turbando la pace del quotidiano, rischiando di fargli perdere la faccia. È la decisione di bloccare nel weekend l’intervista al cantante Ghali, quello dello «stop al genocidio» sussurrato sul palco dell’Ariston, a segnalare una nuova frontiera dell’intruppamento del giornale, del suo schierarsi a difesa di un assetto geopolitico preciso, anche a costo di intervenire, manu militari, contro le voci dissonanti. L’episodio è riportato per primo dal Fatto Quotidiano martedì mattina e poi ripreso da Open. Nei giorni del Festival di Sanremo, Ghali ha rilasciato un’intervista a un giornalista di Repubblica, Carlo Moretti, redazione spettacoli, inviato a Sanremo: articolo già impaginato, avrebbe dovuto uscire nell’edizione cartacea di domenica. Poco prima di andare in stampa, però, la direzione del quotidiano si è opposta e ha deciso di non pubblicarla. Il motivo: a Ghali è stato chiesto, last minute, di aggiungere un commento sugli attacchi di Hamas. Richiesta rispedita al mittente, che ha fatto saltare definitivamente l’intervista. L’entourage del rapper, contattato dal Fatto, ha confermato questa ricostruzione. La storia è «naturalmente» vera, ci dicono quelle stesse fonti di Repubblica fin dalle prime ore dello scandalo, tra rabbia e rassegnazione. Il caso arriva al Cdr del giornale che - si saprà qualche ora dopo - nella stessa mattinata è intervenuto con un comunicato molto duro: «Interpretando il comune sentire largamente diffuso tra le colleghe e i colleghi di Repubblica, non possiamo che contestare la mancata pubblicazione dell’intervista a Ghali, fermata dal direttore quando era già in pagina». Questo il passaggio-chiave: «I nostri interlocutori hanno il dovere di rispondere, ma anche il diritto di non prendere una posizione se lo ritengono, assumendosene le responsabilità». Lavoro dei colleghi buttato, spiegano, e la loro professionalità umiliata. Il Cdr sottolinea inoltre dei comportamenti in contrasto: «Fatto che diventa ancora più grave nel momento in cui Repubblica racconta – e prende giustamente posizione – il comportamento dei vertici Rai parlando di ‘censura e Festival vigilato’. Viene meno non solo la coerenza, ma emerge un atteggiamento da ‘misura per misura’ che mina la credibilità della testata». E conclude: «Purtroppo non è la prima volta che siamo costretti a intervenire su casi di questo tipo. Repubblica [non è]uno strumento che risponde alle sensibilità di un’unica persona».
A questo punto è la stessa direzione di Repubblica a fugare ogni dubbio. Maurizio Molinari, con una pezza forse peggiore del buco, decide di pubblicare (online, non sul cartaceo) l’intervista. Con una premessa: «Non è stata mai fatta alcuna censura contro il cantante Ghali, gli è stato invece chiesto di rispondere a una domanda sulle polemiche seguite al suo primo intervento a Sanremo in merito al mancato riferimento al 7 ottobre e lui ha scelto di non farlo». E in fondo all’intervista una precisazione in corsivo: Repubblica ha dedicato all’artista la copertina dell’ultimo numero del Venerdì. Quanto all’intervista, «era stato chiesto di integrarla con una risposta sul 7 ottobre, richiesta fatta da uno dei nostri inviati con un messaggio whatsapp mandato all’entourage dell’artista all’1.16 di venerdì 9 febbraio, messaggio che non ha mai ricevuto risposta e nel quale si ribadiva l’intenzione del giornale a pubblicare l’intervista non appena Ghali avesse fornito una risposta, naturalmente quella che riteneva di dover dare. Quella risposta non è mai arrivata». Quella nota finisce col certificare la censura, altro che smentirla. E le domande aumentano anziché diminuire: perché quel messaggio inviato in piena notte? A Repubblica sono accorti di avere una domanda imprescindibile da fare? Ci sono state pressioni esterne, politiche? E perché non pubblicare comunque l’intervista menzionando la mancata risposta? E cosa sarebbe successo se Il Fatto non avesse scoperchiato il caso? Che modo curioso di lavorare. Senza contare poi che l’intervista sul Venerdì di cui parla Molinari è uscita due settimane prima. Prima, cioè, delle polemiche post-Sanremo e dell’intervento polemico dell’ambasciatore israeliano in Italia, che ha parlato di «odio» contro Israele. Ma c’è di più: mentre innumerevoli lettori in quelle ore si indignano con Repubblica per la mancata intervista, l'episodio più disarmante che riguarda il quotidiano è forse un altro, passato inosservato: è la lettera di una tale «Matilde d'Alessandro - Monza» che si chiede: «Perché il cantante Ghali ha sentito il bisogno di lanciare un schizzo (sic) di antisemitismo della cui stupida gravità non è capace di rendersi conto?». Lettera scelta per essere pubblicata (come se nulla fosse quell’accusa di «antisemitismo» rivolta in modo del tutto disonesto e gratuito contro il cantante) nella rubrica di Francesco Merlo. Colui che già mesi prima, in una famigerata invettiv, aveva assimilato il fumettista Zerocalcare nientemeno che a Hamas. La risposta di Merlo: «Non è certo il primo cantante che si è buttato su Israele fiutando l'aria di piazza e il conformismo». E cita Vitaliano Brancati: «ogni cretino è pieno di idee».
In pratica, nello stesso giorno in cui la direzione di Repubblica nega di aver censurato un artista o di avercela con lui, autorizza la pubblicazione di uno scambio surreale e violentissimo che dà dell'«antisemita» e del «cretino» a quello stesso artista. Che razza di idea ha dei suoi lettori la direzione Molinari? Forse un’idea di lettori sempre più attempati, noncuranti, radicalizzati in un centro sempre più simile alla destra. Lettori, sempre più scarsi, da “pesare” piuttosto che da “contare”. Un’idea dove la fedeltà a certi gruppi di pressione e una linea filoisraeliana e atlantista rigidissima contino più della coerenza e della libertà d’espressione. Questa deriva è il segnale di un media outlet che cerca un pubblico elitario e conservatore. Con un paradosso: alcuni tratti maoisti che vengono attribuiti solitamente dai conservatori alla sinistra woke si ripetono anche in un certo conformismo liberale, di centro-destra: il pretendere formulette retoriche, dichiarazioni di sostegno e mea culpa performativi agli intellettuali. Come «lasciapassare» per poter dire la propria. Un tribalismo ideologico che prevale su qualsiasi principio o ideale. Eppure lasciare che un artista si esprima sulla guerra senza imporgli dichiarazioni retoriche (usate come dei «lasciapassare» editoriali) e difenderlo da eventuali censure sarebbe stato l'Abc non diciamo del Pci di Occhetto che difendeva Arafat o del Psi di Craxi o dell’Italia di Sigonella, ma pure del primo Ulivo degli anni Novanta. Eugenio Scalfari si rivolterebbe nella tomba. E la lettera del Cdr mostra sempre più come l’élite delle redazioni, quella delle star e dei «senatori» del giornalismo, sia sempre più in conflitto con i cronisti, gli esperti e i cronisti comuni. Una storia che spiega anche la ritrosia a esporsi di molti intellettuali progressisti contemporanei sulla questione Gaza: per paura di vedersi recensioni a libri in uscita, collaborazioni e opportunità lavorative cancellate, da un giorno all'altro, senza nemmeno una spiegazione plausibile.