Tre mesi e 23 giorni. Prendendo la giornata di oggi come termine di fatto dopo le indiscrezioni (non smentite) degli ultimi giorni, tanta è durata la vita di Mario Sechi da capufficio stampa accanto alla premier Giorgia Meloni. Oddio, “accanto” si fa per dire: pare che il rapporto fra i due fosse a tal punto filtrato - eufemismo per ostacolato – dall’entourage più stretto della premier, che lo schietto e vulcanico Sechi non ce la facesse proprio più, e pertanto non abbia accolto male la “promozione” a nuovo direttore di Libero. Doveva passare ogni santo dì le forche caudine da una parte di Patrizia Scurti, segretaria della Meloni, e dall’altra di Giovanna Iannello, coordinatrice della comunicazione istituzionale. L’aria che tirava negli uffici era tutto fuorché idilliaca, almeno a sentire i retroscena di corridoio. Da quel 6 marzo scorso in cui prese possesso del ruolo, per venire immediatamente catapultato nella non facile gestione della famosa conferenza stampa del governo a Cutro, luogo di tragici lutti migratorii, la sua presenza si è fatta via via sempre più rada, quanto meno all’esterno. Il nervosismo con cui tagliò corto troncando le domande dei giornalisti, insoddisfatti dalle risposte della Presidente del Consiglio e dei ministri, non fu oggettivamente un bell’esordio. Dava l’impressione di non essere propriamente nella sua parte, che è quella di un giornalista dalla testa ai piedi. Non di un “portavoce”. Ma il fatto è proprio questo: non essendo formalmente il portavoce, Sechi non aveva l’accesso diretto e prioritario ai fili che si dipanano dalla Meloni verso il mondo fuori dal Palazzo. Di qui la tensione che, dopo neanche quattro mesi, è sfociata in rottura.
Al che, però, il capo del governo si è ritrovata fra le mani la patata bollente di un capufficio stampa, e dal nome ingombrante, da dover riposizionare onde evitare la magra figura di vederlo andar via dopo un lasso di tempo talmente breve da risultare, francamente, ridicolo. E qui i rumors riferiscono che la Meloni, per non vedersi scoppiare un’altra grana dopo il caso Santanchè e la gestione dell’alluvione in Romagna, il suo zampino ce lo avrebbe messo, nel dirottare Sechi alla direzione di Libero,da cui è imminente la partenza di Alessandro Sallusti verso il Giornale, acquistato da poco da Antonio e Giampaolo Angelucci. Questi ultimi stanno facendo i preparativi per dar forma al polo egemone della carta stampata filo-governativa, con il tridente Libero-Il Giornale-Il Tempo di supporto alla maggioranza di centrodestra e, in particolare, a Fratelli d’Italia e alla sua leader. Al quotidiano che fu di Montanelli e di Feltri, e che oggi è diretto da Augusto Minzolini, ci voleva un uomo non solo di totale fiducia ma anche di assoluto peso, e difatti, a quanto sembra, Sallusti sarà spostato in quella casella, per l’appunto, di peso. A forza, quasi. A rivelarlo alla sua più ristretta cerchia sarebbe stato lui stesso, e non è dettaglio da poco per comprendere le difficoltà operative dell’armata mediatica meloniana. Al Giornale, quindi, un po’ obtorto collo tornerà lui assieme a Feltri. Era rimasta ancora vuota quella a Libero, e sulle prime si pensava all’attuale condirettore, Pietro Senaldi. Ma il suo profilo, forse perché non abbastanza “pesante”, non soddisferebbe a sufficienza e sarebbe già stato scartato da tempo. Ma ora, tac, ecco che a togliere le castagne dal fuoco agli Angelucci (e alla Meloni) cade con tempismo perfetto il promoveatur ut amoveatur di Sechi, che così potrà tornare a fare quel che sa far meglio: dirigere una testata. A completare il risiko di nomine, gira insistentemente la voce che ad affiancare Sechi a Libero possa arrivare Daniele Capezzone, mastino anch’egli liberale (“classico”, per la precisione), non a caso uscito da qualche giorno da La Verità, su cui scrive da anni (oppure, in alternativa baciata, a sostituire sempre Sechi nel posto di capo ufficio stampa della primo ministro). Stamane ha smentito le ipotesi sul suo conto, definendole “sbocchi professionali inesistenti”.
Tornando a Sechi: dopo gli inizi nel 1992 nell’anarchicheggiante L’Indipendente di Vittorio Feltri, che due anni se lo porta dietro dopo al berlusconizzato Giornale, fa la sua prima, non fortunata, esperienza da direttore a L’Unione Sarda – lui sardo di Cabras – dal 2000 al 2001, per poi far ritorno al Giornale, questa volta da vicedirettore. Nel 2007, sempre da vicedirettore, passa al settimanale Panorama, e mantenendo la stessa posizione compie un passaggio a Libero, dal 2009 al 2010. Quell’anno assume la guida del Tempo, che l’editore di allora, Domenico Bonifaci, gli affida per scrostare dall’immagine del quotidiano romano l’alone di giornale “fascista”. Sechi è infatti un liberale, sia pur di destra (“revolutionary conservatory”, ebbe a definirsi). E ha sempre tenuto a rimarcare le distanze dei colleghi più faziosamente berluscones. Per capirci, una volta chiarì che il “maestro” di giornalismo, per lui, era stato Eugenio Scalfari: “un gigante, il più acuto”. Insomma, si è sempre considerato anzitutto “libero”, tanto che nel 2013 tentò, non riuscendovi, la carriera politica candidandosi sotto le bandiere di centro di Mario Monti. Una scelta che gli scherani berlusconiani non gradirono affatto. Poco male, perché dopo quella parentesi tornò in campo come commentatore del Foglio e di Mix24 su Radio24, con Giovanni Minoli e Pietrangelo Buttafuoco. Nel 2017, ispirandosi a modelli dell’amata America, crea List, una app e newsletter su abbonamento e senza pubblicità dove può sbizzarrirsi in totale autonomia: “Se non c’è un editore abbastanza lungimirante da farmi scrivere quello che voglio – disse in quell’occasione - devo trasformare me stesso in un editore così lungimirante da potermi pubblicare senza nessuna censura”.
Il grande pubblico lo conosce soprattutto come ospite fisso delle Maratone Mentana, con gustosi siparietti con il direttore del tg di La7. Il salto, che lo fa comunemente descrivere come giornalista inserito e apprezzato nelle alte sfere del potere, lo compie nel 2019 quando diventa direttore dell’Agi, l’agenzia di stampa dell’Eni, potenza petrolifera nazionale che, notoriamente, è uno Stato nello Stato. Del resto, già da due anni era responsabile di WE – World Energy, trimestrale del gruppo Eni dedicato alla geopolitica dell’energia. Luca Telese, che lo conosce bene avendo condiviso la stanza di lavoro al Giornale, in un ritratto aggiunse un altro elemento che può spiegare l’importanza specifica del Nostro: il “cordone ombelicale con la diplomazia a stelle e strisce”, che Sechi avrebbe coltivato da trumpiano moderato negli anni addietro. All’indomani dell’incarico a Palazzo Chigi, lo scorso marzo, il Foglio gli dedicò un articolo maliziosamente divertente in cui diede conto del discorso d’addio alla redazione dell’Agi: “una via di mezzo tra il discorso motivazionale di Leonardo Di Caprio ai suoi broker, lo Zarathustra di Nietzsche e l’onorevole Trombetta di Totò”. Pare infatti che Sechi sia parecchio consapevole della sua bravura, tanto da uscirsene con una frase di questo tenore: “Io non sono Mario Sechi perché sono venuto all’Agi. Io ero già Mario Sechi. E lo sarò anche dopo. L’Agi resta mia, io non mi sento un esule, non vado al confine”. Sottolineando i risultati raggiunti (visibilità televisiva, passaggi streaming eccetera, tutti “del sottoscritto”), sottolineava anche il “sacrificio economico enorme” nell’accettare la “chiamata” della Patria, ma sentiva di “dover restituire qualcosa a questo Paese”, posto che lui era, e restava “fino all’ultimo lembo, fino all’ultimo atomo, un giornalista”. Specificando, profetico: “Tornerò un giorno dall’altra parte della barricata, sono certo che le occasioni non mi mancheranno”. È stato accontentato. Con imprevista, supersonica celerità.