A Piazzetta Cuccia si suda negli ultimi giorni, e la colpa non è certo del caldo: sono sudori freddi, quelli di Alberto Nagel, che si è messo l’elmetto per difendere il fortino Mediobanca dalla scalata del Monte dei Paschi di Siena (Mps), tornato a suonare la carica. Il ceo di Mediobanca ha riunito in fretta e furia il board per far circolare slide con proiezioni scintillanti fino al 2028: utili, dividendi, cash flow – un’orgia di cifre per convincere i soci a non vendersi per un piatto di lenticchie toscane. Ma non solo: Mercoledì, il giorno del “nulla osta” della Banca centrale europea (Bce) all’offerta Mps, Mediobanca ha piazzato una stilettata formale con tanto di richiesta alla Consob per tirare fuori tutti gli scheletri economico-finanziari di Siena. In particolare: cosa succede se l’offerta pubblica si scambio (ops) non arriva al fatidico 50,1 per cento? Sinergie mancate, Dta non monetizzate, dividendi evaporati. Un disastro, secondo Nagel & Co. E intanto Siena, per nulla intimorita, ha esercitato la delega per un aumento di capitale da 13 miliardi: carta, carta e ancora carta, per coprire un’ops che pare più una missione kamikaze con addosso la benedizione di Bruxelles.

Dietro lo scontro Mps-Mediobanca si muovono gli artigli silenziosi dei grandi vecchi della finanza italiana. Delfin e Caltagirone – i due leoni rampanti della borghesia affarista – sono pronti a salire sopra il 10 per cento nella nuova entità post-fusione, ma servirà l’ok di Francoforte. Delfin potrebbe schizzare al 26 per cento in caso di adesioni basse all’ops. Ma attenzione: la partecipazione dovrà restare "finanziaria", altrimenti scatta l’allarme rosso della Vigilanza. Mps dovrà presentare un piano industriale post-acquisizione, con tanto di dettagli su governance e IT (perché nessuno ha ancora capito come funzionano davvero i sistemi informativi in queste banche). In caso di adesione soft sotto il 50 per cento, servirà un report da revisore esterno per dimostrare che c’è comunque “controllo di fatto”: il trucco del prestigiatore per far passare una minoranza per una maggioranza. Intanto in Borsa, i due titoli si muovono in tandem come una coppia di vecchi ballerini stanchi: -1,39 per cento Mps, -1,24 per cento Mediobanca, con uno sconto sul concambio dell’ops che grida al rilancio. Un miliardo di differenza balla sul tavolo, e qualcuno dovrà tirare fuori il portafoglio o mettere mano al portamonete di Stato (leggasi: aiuti pubblici). Sì, perché c’è ancora quel nodo grosso come una Btp in default: i presunti 7,5 miliardi di aiuti di Stato usati da Mps per lanciare l’offensiva. La Commissione Ue annusa l’aria, ma ancora non si decide se abbaiare o mordere.

E mentre al centro si gioca la madre di tutte le battaglie, ai margini del risiko si fanno manovre d’accerchiamento non meno spettacolari. Unipol, col suo solito fiuto da segugio assicurativo, ha deciso di benedire l’ops di Bper su Banca Popolare di Sondrio: troppa convenienza per dire no, visto che è azionista di entrambe. Il doppio cappello vale miliardi, e alla faccia del mercato che valuta l’offerta sotto le aspettative, il gruppo di Cimbri ha fatto spallucce: l’obiettivo è controllare da dentro, come burattinai silenziosi, la nuova entità. Intanto, su un altro fronte, cade anche l’ultimo baluardo di Corrado Passera: il patto di consultazione in Illimity si dissolve come neve al sole, e Banca Ifis avanza a colpi di cash e premi per convincere i soci riluttanti. La soglia del 60 per cento è quasi in tasca, e si sogna già lo squeeze-out, magari con un ultimo colpo di teatro targato Consob. Se Ifis arriva al 66 per cento, può già convocare l’assemblea e proporre il delisting. Niente più challenger bank, si torna tutti nell’ovile. E così, mentre i banchieri parlano di sinergie, razionalizzazione, e generazione di valore, la realtà è una sola: il risiko italiano è un gioco antico, fatto di vendette, ambizioni personali e relazioni incrociate. Altro che razionalizzazione: qui ognuno cerca di portarsi a casa la fetta più grossa della torta prima che si spenga la luce.