Dove eravamo rimasti? Al funerale di Playboy, alla sua fine misera, soffocata in un ultimo, patetico spasmo di progressismo, una fine che non fu neanche spettacolare, non ebbe la grandiosità di un rogo, né la brutalità di un’esecuzione pubblica. No, fu una morte strisciante, una morte che arrivò in silenzio, mentre la rivista, come un vecchio attore dimenticato, cercava di convincere il mondo di avere ancora qualcosa da dire, di essere ancora rilevante. Poi, il silenzio.
Dopo il 2017, dopo la morte di Hugh Hefner, Playboy diventò non l’ombra di sé stesso, ma la sua totale negazione e contraddizione. Ines Rau, la prima Playmate transgender, segnò l’apertura di una nuova era, un’era di parole d’ordine vuote, di inclusività obbligatoria, di un erotismo che si vergognava di sé stesso, di un Playboy che, come un marcescente libertino redento, si inginocchiava davanti alla nuova moralità, ripudiando il proprio passato, rigettando il desiderio. “È la cosa giusta da fare” dichiarava Cooper Hefner, il figlio del fondatore, tradendo immediatamente l’eredità di un padre che mai, neanche per un secondo, si sarebbe piegato all’idea che l’erotismo dovesse essere rieducato, filtrato, sterilizzato per non offendere.
Così il sesso scomparve. Niente più nudi, niente più donne bellissime adagiate su letti di seta, niente più immaginario maschile. C’erano Lizzo e la sua strabordante body positivity, l’influencer gay travestito da coniglietta Bretman Rock, il liquido quanto problematico attore Ezra Miller. C’erano editoriali sulla fluidità di genere, sulle nuove frontiere dell’identità, c’erano servizi fotografici realizzati da femministe, c’erano coordinatori di intimità, qualsiasi cosa siano questi supervisori etici e burocatici di corpi non ritenuti più degni né in grado di muoversi e controllarsi da soli. C’era tutto tranne Playboy.
Un flop annunciato, e arrivò la chiusura.
Ora Playboy torna, dopo cinque anni di limbo e una sorta di coma vigile del brand online. E come torna? Torna con Gillian Nation, una Playmate che è tutto quello che il Playboy post-Hefner aveva giurato di cancellare: giovane, bellissima, bionda, eterosessuale, sensuale senza sensi di colpa. “Mi piacciono gli uomini virili” dice nella sua intervista, parole che suonano come bestemmie nell’era woke, parole che qualche anno fa nessuna donna avrebbe osato pronunciare sulle pagine della rivista. E invece eccola lì, fotografata in mezzo ai cavalli, un erotismo che si aggrappa disperatamente al mito dell’America rurale, del West, come se l’ultima speranza per Playboy fosse un’estetica da feticisti del country.
E poi c’è Lori Harvey, “la più sexy nepo baby d’America”, figlia di Steve Harvey, famosa per il cognome e per il corpo, fotografata in lingerie per una copertina che non ha nulla di nuovo, nulla di sorprendente, nulla di pericoloso, ma che è una vecchia idea che tenta di rientrare in scena, un fantasma che si crede ancora qualcosa di vivo.
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Ma chi ha ancora bisogno di Playboy?
Questa è la domanda che nessuno sembra farsi. Il ritorno della carne nuda su carta patinata non riporterà indietro il tempo, questo simulacro di brace non riaccenderà il fuoco dell'eros vintage. Playboy è morto non solo per essersi piegato alla sinistra woke, alle femministe, ai profeti della fluidità di genere. Playboy è morto perché è morto il desiderio.
Nell’era dell'hard gratuito e oceanico, del voyeurismo digitale, di piattaforme come Of, di Instagram e TikTok che permettono a ogni ragazza e ragazzina di presentarsi da sola come Playmate sotto chili di steroidi di filtri, che senso ha aspettare un mese per vedere una donna nuda su una rivista? L’erotismo di Playboy funzionava perché c’era un rito, perché c’era attesa, perché c’era un contenitore con un senso, perché non era immediato. Oggi il sesso è istantaneo, il corpo è diventato un contenuto, e il desiderio si è trasformato in consumo.
E poi c’è la questione più tragica: anche se il desiderio fosse ancora vivo, sarebbe Playboy il suo tempio? Verosimilmente no, perché il mondo è cambiato, perché l’erotismo è cambiato, perché l’idea stessa di mascolinità (purtroppo?) è cambiata. Nel nuovo numero della rivista c’è un pezzo intitolato "L’ascesa del maschio beta", un titolo che suona quasi ironico per una rivista che un tempo era la Bibbia del maschio alfa.
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Il sogno è finito?
Playboy era un sogno. Era l’illusione di un mondo perfetto in cui le donne erano sempre bellissime e disponibili, in cui gli uomini erano sempre ricchi e affascinanti, in cui il sesso era sempre elegante, sofisticato, mai volgare. Ma era il sogno di un’altra epoca. Oggi tutto è diretto, esplicito, brutale. Non ci sono più misteri, non c’è più attesa, non c’è più la necessità di immaginare.
E così, questo ritorno alle origini rischia con tutta probabilità di essere un ritorno fuori tempo massimo. Playboy non sarà mai il manifesto progressista che qualche sciagurato cavalcatore di trend ha provato a far diventare, ma non potrà nemmeno mai più essere quello che era. È un corpo patinato senza vita che si rifiuta di accettare la propria decomposizione, un cadavere che cerca disperatamente di sembrare ancora vivo, un vecchio che si tinge i capelli e si veste come un ventenne, convinto che basti questo per fermare il tempo.
Hefner è morto. E con lui è morto anche il sogno di Playboy. Il sesso, quello raccontato dalla rivista, quello che faceva scandalo e vendeva milioni di copie, è diventato antiquariato. Playboy oggi non può essere altro che un’operazione di nostalgia, un tentativo velleitario di vendere un passato che nessuno vuole più acquistare.
Il sesso era un’arte, ora è un algoritmo. E gli algoritmi non comprano riviste.
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