Il “pandoro-gate” continua a essere una cartina tornasole per ambiguità, contraddizioni e “incidenti” nel mondo dell’imprenditoria digitale, soprattutto quando si lega a temi delicati come quello della beneficienza. A commentare la notizia anche Mizio Ratti, founder di Enfants Terribles, una delle più note agenzie pubblicitarie indipendenti italiane. Ratti, che quest’anno ha offerto le sue competenze a molti lettori dei suoi canali, compreso il nuovo blog su substack “mizionewsletter”, proprio in cambio di un’offerta volontaria per beneficienza con il programma “Mentor for Charity”, ha criticato l’impianto stesso di tutta questa storia, giudicando poco convincenti anche le scuse di Chiara Ferragni: “Piccolo ripasso di come si dovrebbe fare la beneficenza: possibilità numero uno, si dona a qualcuno e non si pubblicizza il gesto; possibilità numero due, si pubblicizza qualcosa, anche un brand o un servizio che ha scopo di lucro, ma poi si devolve il guadagno in beneficenza. Non esistono altri modi di fare beneficenza, e di certo non può essere considerata beneficenza chiedere a un brand un cachet milionario e poi pretendere che quest’ultimo faccia una donazione”. Il riferimento è chiaramente alla campagna Balocco, raccontata da Selvaggia Lucarelli su Il Fatto. “Questo presupposto è il punto di partenza, che non riguarda la comunicazione ma che attiene semplicemente al principio della buona fede, salvo che non si voglia credere che il Team di Chiara Ferragni ignori i più elementari principi di comunicazione e senso civico”. Si entra poi nel merito, partendo dall’etichetta stessa dei pandori griffati: “Questo testo, comunque lo si voglia interpretare, è pubblicità ingannevole: i consumatori sono portati a pensare che pagando oltre 9 euro, invece di 3,70 euro del pandoro normale, oltre a un pezzo di plastica che permette di lasciare l’icona dell’occhio di Chiara con lo zucchero a velo, contribuirà all’acquisto di un nuovo macchinario per l’ospedale, perché tutto o buona parte del guadagno sarà devoluto in beneficenza. Peccato che la donazione di 50.000 euro di Balocco sia stata fatta molti mesi prima”. Strike numero uno. Subito dopo: “Nel complesso le società riconducibili a Chiara Ferragni (Fenice e TBS Crew) sono state multate più del doppio rispetto alla Balocco, questo nonostante sia stato il brand a commercializzare il pandoro incriminato. Come mai? Semplice: perché sono state ritenute doppiamente responsabili”. Strike numero due. Ratti prosegue spiegando fin da quando ha iniziato a nutrire forti dubbi su Chiara Ferragni: “Personalmente provo un fastidio profondo nei confronti di Chiara Ferragni fin dopo il 25 novembre, perché tornato a casa dalla manifestazione in Largo Cairoli avevo intercettato questa sua foto sui social. La mia reazione istintiva era stata quella di stima e ammirazione. Mi ero detto: ‘Chissà come è stato difficile per una come lei mischiarsi alla folla, e data la sua fama la sua partecipazione non può che fare bene alla causa’. Però c’era qualcosa che stonava, e facendo una piccola ricerca ho trovato questa t-shirt di Dior che ha pubblicizzato nel 2017 e che è tuttora in vendita al prezzo di 750 euro. Ora, oltre a ignorare le più elementari regole di comunicazione sulle donazioni, è possibile che sia così priva di fantasia da recuperare un claim del 2017 che guarda caso è stampato sopra a una t-shirt di Dior?” Ratti dà ragione alla Lucarelli. Il caso balocco non è “un errore di comunicazione”, un passo falso, unico e isolato: “Tutto è possibile, ma io sono allineato alla Lucarelli: più che errori di comunicazione si tratta del suo modus operandi”.
L’esperto di comunicazione si concentra anche sulla sovraesposizione mediatica dei figli, spiegando che farebbe parte della strategia comunicativa dell’influencer: “Chiara Ferragni cavalca sempre le cause più attuali oppure quelle che sensibilizzano maggiormente l’opinione pubblica. Come se invece di fare del bene alla causa scelta, fosse la causa che fa bene a lei. Quando lavoravo per una delle tante associazioni che si occupa di Alzheimer, la presidentessa mi ripeteva spesso: ‘Dei vecchi non frega niente a nessuno, mentre basta esporre un bambino per raccogliere valanghe di donazioni’. Sembra una visione cinica, ma è la verità. Perché Chiara Ferragni espone tanto i suoi figli? Perché la beneficenza si focalizza spesso nei confronti dei bambini?”. Dopo la critica arriva la pars construens: “La cosa migliore che Chiara Ferragni potrebbe fare per i bambini, se il tema le interessasse davvero, sarebbe quella di togliere Leone e Vittoria da Instagram. Per il bene loro, della loro futura igiene mentale, ma anche di tutti i bimbi non altrettanto belli e con genitori non sufficientemente intelligenti”. Si passa alle scuse, ovviamente figlie di una precisa strategia di gestione dell’emergenza: “Qualsiasi persona che lavora in comunicazione sa che il video di scuse di Chiara Ferragni non è spontaneo, ma è l’attività di crisis management con cui il Think Tank dei suoi consulenti di comunicazione ha fatto seguito alla sanzione dell’AGCM”. Un elemento troppo spesso trascurato, inoltre, riguarda i presunti benefici dell’azienda nella partnership con un influencer. Come evidenziato da Ratti, spesso tali benefici sono quasi inesistenti. Ma allora perché continuare a costruire rapporti commerciali di questo genere con figure come Chiara Ferragni? “Un tempo c’era Mike Bongiorno, l’influencer ante litteram, che spostava le vendite di un prodotto perché si dedicava con passione alle televendite. Sono poi arrivati i Testimonial che con lo stesso cachet che Balocco ha corrisposto alla Ferragni garantivano ottimi ritorni grazie alla loro immagine ripetuta negli spot in televisione. Oggi ci sono gli Influencer che nonostante siano privi di qualsiasi competenza, schifano i brand sui social dedicando loro solo il tempo di una storia su Instagram. […] Il macroscopico utilizzo di Influencer oggi è la spia di un mondo della comunicazione sempre più in crisi. Di idee, di coraggio e di innovazione. Un mondo in cui alle agenzie pubblicitarie sta sfuggendo di mano il talento (è la conseguenza di un lavoro sempre più stressante, sempre meno retribuito e con un ricambio generazionale difficile), un mondo in cui troppi uomini di marketing hanno dimenticato quanto sia fondamentale il messaggio della comunicazione”.