Elon Musk non si occupa solo di motori elettrici, di viaggi nello spazio, di recente di social media e libertà di parola, ma anche di chip. Proprio così. La Neuralink, di sua proprietà, sperimenta da anni dei chip da impiantare nell’uomo per risolvere problemi di natura medica e non solo. L’idea ricalca lo spirito transumanista di alcuni miliardari, secondo cui l’uomo potrà un giorno avere prestazioni più efficienti e migliori grazie all’uso della tecnologia, che nel frattempo avrà risolto o terrà a bada le malattie del corpo biologico. Proprio in questi giorni Musk ha fatto richiesta alla Food and Drug Administration del permesso per avviare le sperimentazioni sugli umani per un chip contro l’acufene. In attesa della risposta dell’istituzione americana, abbiamo chiesto al neuroscienziato Giorgio Vallortigara quali solo i rischi e i benefici di questa tecnologia. «Sul piano intellettuale sono un sostenitore del transumanesimo» e promuove l’iniziativa di Musk, ma non senza metterci in guardia sugli standard che un privato dovrebbe rispettare.
Elon Musk ha chiesto l’approvazione alla Food and Drug Administration per iniziare la sperimentazione sull’uomo del suo chip contro l’acufene. Di che tecnologia stiamo parlando?
In generale queste tecnologie di brain computer interface (BCI), si basano sull’idea che c’è un segnale che viene registrato dal sistema nervoso e viene poi inviato a un computer, così che si possa fare un certo tipo di operazione grazie proprio a quel segnale. Nel caso dei prodotti di Neuralink, oltre alla soluzione di problemi medici, sembra che sia di poter arrivare a svolgere attività direttamente su un computer, senza bisogno di arti, di mouse e così via.
Alcuni parlano di rischi di scorie e materiali che potrebbero avvelenarci.
La cosa è meno impressionante di quello che possa sembrare. La tecnologia BCI può essere invasiva o non invasiva. Si può, per esempio, registrare un elettroencefalogramma dall’esterno, dallo scalpo, individuare il segnale che corrisponde a uno stato di veglia, attiva o rilassata, inviarlo a una macchina affinché questa si muova in base al segnale. È chiaro, però, che se si impiega una procedura ti tipo invasivo, come quando a qualcuno si impianta un chip nel cervello, il chip non potrà restare per sempre lì, perché come minimo produce con gli elettrodi un piccolo danno, senza contare le risposte immunitarie del corpo e la formazione di tessuto di tipo cicatriziale. Piano piano il corpo cercherà di liberarsi da questo intruso. Ci vorrà sicuramente molta sperimentazione sugli animali per poterne prevedere l’uso sistematico e su tempi prolungati (come accade oggi per altri dispositivi biomedicali). Ma Elon Musk non è il primo a impegnarsi in questo genere di progetti, ci sono già molti gruppi di ricerca e lavori pubblicati sull’uso di chip innestati, per esempio, in pazienti paraplegici per consentire loro di agire su un computer e di comunicare.
Ha qualche perplessità riguardo alla proposta di Musk?
Sicuramente un conto è proporre l’operazione per motivi medici a pazienti che a vario titolo ne possano trarre vantaggio. Tutt’altra faccenda, e mi sembra il discorso veicolato dalla ditta e da Musk con i vari spot pubblicitari, è attivarsi per l’impianto di un chip a fini puramente ricreativi. Su questo direi di essere più cauti per ora.
Il fatto che sia un’azienda privata la preoccupa?
Mi preoccupa in generale che molta parte della ricerca sulle tecnologie più sofisticate oggi (penso ad esempio all’Intelligenza Artificiale) sia condotta all’interno delle aziende piuttosto che nell’accademia, nelle università. All’interno dell’accademia ci sono dei costumi consolidati di verifica e di controllo che passano attraverso la pubblicazione peer review per esempio. È il caso del lavoro di cui parlavo sui chip per i pazienti tetraplegici, che è stato pubblicato su una rivista scientifica internazionale con tutti i dati e i dettagli. Nei casi in cui si tratta di aziende private, invece, escono prima le pubblicità dei dati, quando dovrebbe essere il contrario: «Show me the science» e poi discutiamo... Comunque se la proposta di Musk è arrivata alla FDA, sicuramente l’azienda ha dovuto produrre evidenze scientifiche per supportare la richiesta.
Già nel 2019 Musk disse che l’obiettivo era di avere un «fitbit nel cervello», uno strumento che fosse in grado di archiviare i nostri dati personali provenienti dal cervello. Non è rischioso che un privato abbia in mano tutte queste informazioni su ciascun individuo?
È un’esagerazione, però, perché non siamo giunti a un livello di conoscenza del funzionamento del cervello che ci permetta di utilizzare in modo sensato i dati provenienti da questo organo (non è neppure chiaro quali siano i dati rilevanti: la frequenza di scarica dei neuroni? Il luogo in cui si attivano? Tutte queste cose assieme?). Soprattutto ciò che pertiene alla codifica dei dati relativi al cervello è lontano dalla nostra attuale comprensione, non conosciamo il codice. Quindi Musk può raccogliere tutti i dati che vuole, ma al momento dubito che ci possa fare qualcosa di sensato.
In Italia esistono team che si occupano dello stesso campo di ricerca di Neuralink?
Sì, ci sono molti team di ricerca nell’area della bioingegneria; ad esempio al Sant’Anna, a Pisa; l’attuale presidente del CNR, la professoressa Maria Chiara Carrozza, viene da lì ed è un grande esperto in materia.
Non ci sono dei limiti etici all’impianto di chip nel corpo umano?
Io credo che sia un problema che dobbiamo porci perché si tratta di tecnologie che offriranno soluzione importanti a molti problemi legati al funzionamento dei nostro corpi. Sul piano intellettuale io sono un sostenitore di quello che viene chiamato a volte transumanesimo. Mi preoccupo solo che venga realizzato con tutti i crismi del caso, a partire dalla sicurezza fisiologica, anatomica, medica, di chi si sottopone a queste procedure di impianto. Ma sul piano generale credo si tratti di una sfida formidabile. Personalmente se ci fosse a disposizione un meccanismo sicuro che mi consentisse di amplificare, per esempio, la mia dotazione di memoria, io sarei più che contento di farne uso. E devo confessarle che più passano gli anni, più mi auguro che i miei colleghi facciano dei passi avanti in questa direzione.