Nelle ultime settimane, politica e guerra a parte, l’attenzione è stata monopolizzata da un solo, particolare argomento: Twitter. Perché da quando Elon Musk lo scorso ottobre ha ufficialmente rilevato la società pagandola 44 miliardi di dollari - lo stesso prezzo che aveva prima offerto in aprile, poi ritirato a luglio - il social network è entrato in un ciclone di problemi. E no, non è un’esagerazione.
Twitter è uscito dal Nasdaq di New York per volere del suo nuovo proprietario (lo aveva dichiarato fin dall’inizio spiegandone i motivi: non avrebbe dovuto più moderare la comunicazione e rendere conto ai controlli della Borsa di Wall Street), ha licenziato i top manager dell’azienda e silurato, in una settimana, più di 3700 dipendenti. Musk ha avvisato del rischio di bancarotta e l’azienda è stata demineralizzata dalla partenza volontaria di tanti dipendenti. Di contro, il nuovo proprietario ha riammesso molti profili bannati - “perché Twitter deve essere un luogo democratico” ha detto il fondatore di Tesla - fra cui uno dei più discussi, quello dell’ex presidente americano Donald Trump. Ha detto di voler inserire un piano-abbonamento per le spunte blu, cioè quelle dei profili verificati, da otto dollari al mese (poi abbassato) e continua ogni giorno a twittare cose bizzarre. Sembrerà una rocambolesca storia normale su una tech company americana che, per quello che riguarda molti, è limitata in particolare a una piattaforma non più molto utilizzata - tanto stanno tutti su TikTok e Instagram, chi utilizza più i Tweet se non qualche politico e giornalista mitomane? Eppure, per quanto le considerazioni sul suo utilizzo possano essere vere o meno (Twitter aveva perso molta visibilità rispetto ai social concorrenti), rimane comunque 1) una piattaforma con milioni di iscritti in tutto il mondo e 2) una questione di libertà di espressione. Ecco perché chiedersi se Twitter possa fallire o meno non è una questione poco rilevante. Riguarda tutti, riguarda lo Zeitgeist degli anni post Covid.
A partire dal fatto - soprattutto - che Elon Musk, il suo proprietario, è l’uomo più ricco del mondo.
Quindi potrebbe veramente prendere una piattaforma di discussione e condivisione e farne il proprio strumento? Beh, secondo molti, è quello che starebbe già accadendo: un bambino che al parco si è comprato il pallone e decide chi deve giocare e con quali regole. Molti sono scontenti, certo, ma è anche ovvio che Musk, dopo che ha pagato (chiaramente assistito da degli investitori) una cifra miliardaria, non possa far sì che i bambini lascino il parco. Twitter, in altre parole, non finirà. Per diversi motivi.
La piattaforma è in crisi, è vero, ma fra le grandi aziende tecnologiche americane chi - a parte Apple? - non lo è? Da Meta a Microsoft, da Alphabet (Google) a Tesla (toh, Musk) le azioni di queste società hanno perso tantissimo e i conti di Twitter, come i loro, sono andati in pesante rosso (dopo che a febbraio erano in splendida forma con 1,57 miliardi di dollari). L’atterraggio su Twitter come proprietario di Musk è stato rocambolesco, ma stiamo parlando dell’uomo più ricco del pianeta. Lui ha risorse per poter aggiustare questo tipo di situazioni. Come sottolineavano anche sul Guardian, resta da capire quanto lui voglia continuare a investire nel tempo se la situazione continuerà a essere critica.
Inoltre, il ritorno di figure prima tagliate fuori come Trump potrebbe riportare sulla piattaforma tanti follower di questi opinion leader e, a cascata, questo potrebbe reintegrare il brand di Twitter. Infine, l’azienda sta spendendo molto in implementazioni tecnologiche - si cercano, fra le assunzioni, soprattutto ingegneri - di problemi di software attuali, sì, ma che c’erano in realtà anche nella precedente gestione. Ergo, le spese serviranno per costruire un organico sulle nuove esigenze tecnologiche dell’app. E poi parliamone: quanta gente conoscete che si è cancellata da Twitter dopo l’arrivo della nuova proprietà?
Come ha detto lo stesso Musk in un tweet: “La gente fa battute su Twitter, postando su Twitter”.