Quando si parla di pop music e si sbandiera il vessillo dell’oggettività viene da imbracciare il Kalashnikov e fare stragi, però un’oggettività, in questo mondo di perpetui “ma io la vedo così” talvolta c’è. Tipo: i Cugini di Campagna non hanno fatto un affarone a chiamarsi così. Neppure i Pooh, direte voi – l’ormai defunto mensile Q sosteneva che per i Pooh sarebbe stato impossibile avere successo in Inghilterra con un nome simile, che indica disgusto –, ma il successo di certo non è mancato. Cugini di Campagna, tuttavia, proprio in un mondo che abbandonava le campagne, suonava vintage ed eccessivamente naif già in partenza. Non il massimo, insomma. Seconda oggettività: diciamo che esteticamente non sono mai stati gli Stones all’apice o gli U2 epoca-“Achtung baby”. Se la sono cavata perché esteticamente, negli anni ’70, era lecito tutto o quasi (anche Ron Mael degli Sparks, con la sua baffata hitleriana, è stato una pop-star in quel decennio), però… Terza e ultima oggettività: “Lettera 22”, il brano presentato dai Cugini all’ultimo Festival di Sanremo, e classificatosi alla ventunesima posizione, è una bomba pop d’altri tempi. Fatevene una ragione. Scritta da La Rappresentante di Lista, “Lettera 22” è arrivata al Festival anticipata dall’ironia e i pregiudizi dei meme. Da una reputazione invecchiata. Troppo. Si era fatta impalpabile la sostanza dei Cugini di Campagna. Irricevibili per la Gen-Z, rischiavano di essere accolti da un diffuso sorrisetto di commiserazione.
Meritavano tutta questa prevenzione? A giudicare da “Lettera 22”, nient’affatto. Melodia basic e diretta che va dritta al punto. Il mood, “Journey sotto vitamine hyperpop”, riesuma un modello di canzone che sfida il pensiero unico del “recitato/sospirato/rappato con pausa e susseguente deflagrazione massimalista”. Nei Seventies un brano simile avrebbe dovuto sgomitare per trovare il proprio posto al sole, ma solo perché quella decade è stata percorsa da decine e decine di perfetti lampi di scrittura bubblegum/power pop (Cheap Trick, Supertramp, 10cc, Elton John, per non parlare delle corazzate AOR tipo i Toto o i Journey, appunto; del sottogenere yacht, dei Fleetwood Mac e così via), ma oggi… Oggi spicca perché è diverso. Perché eleva una frase di una semplicità elementare (“non lasciarmi solo”) a poesia pronto uso. Quando una canzone pop è degna di essere tale, la magia è quella: iniettare sostanza, gravitas, in frasi che, lette su un bigliettino, senza alcun commento musicale sottostante, risulterebbero spoglie, banali, addirittura monche. Invece quel “non lasciarmi solo”, che arriva dopo una parte che suona come una intro oltremodo allungata, è un trionfo di verità. Una preghiera che vola alto. Attualissima. Caspita, è nel mondo di oggi, dove nessuno, teoricamente, è mai solo, che un grido simile si fa urgente invocazione. Amadeus, lungimirante, ha affermato: “La Rappresentante di Lista mi ha affidato un pezzo dicendomi: dallo a chi vuoi tu. E io l’ho dato ai Cugini di Campagna”. Tié. Sipario.