Scrivere sul Partito Democratico oggi è come essere trasportati nell’ultimo film di Luca Guadagnino, “Bones and all”: ci si nutre di un cadavere. Ma è un morto che pur sempre cammina e che in parlamento, nonostante tutto, è il primo partito d’opposizione. Il 19 febbraio 2023 il Pd andrà alle primarie con due sfidanti che si contenderanno il posto di nuovo segretario nazionale dopo Enrico Letta, di cui nessuno dei compagni sentirà la mancanza.
Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia-Romagna abilissimo a far dimenticare il suo passato di supporter di Matteo Renzi, era dato per favorito. Vecchio arnese ex Pci di scuola emiliana, si è mosso per tempo e gode di sostegni importanti, a cominciare proprio dagli ex renziani (come Lorenzo Guerini, ex ministro della Difesa) e alcuni amministratori (come Giorgio Gori, sindaco di Bergamo), nonché da pesi massimi come Graziano Delrio. Le sue idee, per essere sintetici, sono in sostanza le solite, le prevedibili idee che hanno finora guidato il partito, solo con toni più aggressivi della sonnolenza lettiana e più “nordisti”, tanto è vero che è l’unico governatore di centrosinistra schierato con fervore per l’autonomia (orrore puro per i colleghi del Sud come il pugliese Michele Emiliano e il campano Vincenzo De Luca, che infatti, con queste premesse, gli faranno ciao ciao con la manina). Uno Zaia versante sinistro, per intenderci. Non esattamente un rivoluzionario.
Bonaccini alle primarie ci arriverà sicuramente, salvo cataclismi. Perché per giungere a quella meta, prima bisogna passare dalle forche caudine della conta interna. Da regolamento, funziona così: gli aspiranti alla segreteria si gettano nella mischia avendo tempo fino al 27 gennaio per formalizzare la candidatura e raccogliere i consensi dei soli iscritti al partito; i due che ne avranno ottenuti di più, si scontreranno al voto delle primarie, che è aperto a tutti i cittadini (in teoria, anche a chi non simpatizza per il Pd). Risparmiando al lettore il guazzabuglio di nomi ancora incerti sul da farsi (esempio: cosa farà il sindaco di Firenze, Nardella: appoggerà o no Bonaccini?), l’unica concorrente davvero pericolosa è la ex vice di Bonaccini in Emilia, la 37enne Elly Schlein, che domenica 4 dicembre ha annunciato la propria candidatura.
E qui viene il bello. La Schlein, donna, giovane, bisessuale, nata a Lugano, cittadinanza svizzera e statunitense oltre che italiana, attivista della campagna pro Obama nel 2008 e nel 2012, è presentata come una Greta Thunberg alla bolognese: ecologista, beniamina lgbt, fresca e alternativa. E con il vantaggio di non essere, o non essere ancora, nemmeno iscritta al Pd. Una rottamatrice de sinistra, meno petulante di Alessandra Moretti, più simpatica di Alessandro Zan, decisamente più spendibile di una Laura Boldrini. In realtà, se ha deciso di lanciarsi chiamando all’adunata i suoi al Monk di Roma (ex locale jazz di periferia, molto trendy), evidentemente è perché qualche solido appoggio deve esserselo assicurato.
E infatti la radicalchic Schlein pare aver incassato la benedizione di Dario Franceschini, democristianone che fa politica dal 1983, detto “ora et manovra”, capo dell’AreaDem. Pare, perchè la corrente si è divisa in favorevoli (Michela De Biase, moglie di Franceschini) e contrari (Piero Fassino). Ma se ci aggiungiamo qualche ex fan di Letta, i circoli arcobaleno, i giovani come Benifei e Furfaro e, magari, niente meno che la mano benedicente di Romano Prodi, l’outsider potrebbe farcela, a "vedere" il duello finale. Dipenderà anche da cosa farà il resto della sinistra interna, che non gradisce una Schlein troppo chic e poco radical. A sentire l’eminenza rossa Goffredo Bettini, la vecchia guardia di Zingaretti virerà sulla candidatura, di fatto già in corso, di Matteo Ricci (primo cittadino di Pesaro, forte fra i sindaci, anche lui un ex renziano, anzi, per la verità un ex tutto, bersaniano, lettiano ecc ecc, un po’ come Paola De Micheli, la cui corsa, da tempo ufficializzata, non si capisce quali chances possa avere, a parte ritagliarsi un po' di visibilità).
Qual è il punto dolens della Schlein? È che è una fake, una finta outsider. Non solo perché, anche nel suo caso, non si vede cosa abbia di nuovo, o di abbastanza divergente, la priorità che dà che alle battaglie ambientaliste e sui diritti civili o genericamente sociali anziché concentrarsi sul lavoro e sui lavoratori. Oppure, l’eloquio impestato di frasi vuote (“abbiamo bisogno di confrontarci attorno a quella visione di futuro fatta di proposte concrete”, e già qua cala la palpebra). O ancora, l’allure obamiana, international, à la page, ammeregana, che fa tanto Veltroni 2007, o anche Renzi 2014. Ma soprattutto perché, siccome il gioco ruota tutto intorno alle filiere di potere, alle poltrone da spartirsi per le future elezioni locali e nazionali, l’ovetto kinder Schlein avrebbe dentro la sorpresa Franceschini & C. Cioè l’apparato puro contro altri pezzi di apparato, l’eterno ritorno dell’identico. Se andrà proprio così, la nuova Schlein sarà già vecchia prima ancora di partire. Un’operazione cosmetica di maquillage, l’ennesimo pacco. E non potrebbe essere altrimenti.
Però allora per Bonaccini si metterebbe male. Diciamo meglio: si metterebbe peggio. Perché una con uno shining mediaticamente perfetto come lo ha lei, con una luccicanza così, per quanto falsata, potrebbe insidiargli l’incoronazione sul serio. Per essere più esatti: se nei prossimi mesi dovesse sfondare sugli schermi e su internet, magari alimentata da certo establishment (già ce la vediamo, Lilli Gruber, santificare l’eroina cool e femminile), i sondaggi che in questa fase la danno sfavorita potrebbero cambiare, e la cavalcata del ras emiliano rivelarsi meno trionfale. Tutto, per ora. è nelle mani dei caporioni, al solito. Alle primarie, invece, la musica può essere diversa, anche se non si sa di quanto. Nel frattempo, s'ode un ritornello: ma 'ndo vai Schlein, se il Franceschini non ce l’hai?