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Okkio, i francesi si sono comprati l'Italia (Elkann e Stellantis compresi, e Molinari...)

  • di Andrea Muratore Andrea Muratore

10 aprile 2024

Okkio, i francesi si sono comprati l'Italia (Elkann e Stellantis compresi, e Repubblica...)
Il direttore di Repubblica Maurizio Molinari manda al macero 100 mila copie del suo giornale per un articolo che dispiace a Stellantis (il suo editore). Ma l'articolo diceva la verità: l'Italia non ha una strategia industriale, la Francia sì. Per questo i francesi si sono comprati tutti gli asset italiani. E noi zitti

di Andrea Muratore Andrea Muratore

La Francia si è “presa” l’Italia? La notizia negativa è il fatto che da tempo la preminenza degli interessi finanziari francesi nel contesto del Belpaese e nelle partite comune tra le due “gemelle latine” è diventata tanto ampia da risultare difficilmente colmabile, almeno nel breve periodo. Quella positiva è che il sistema-Paese non è a encefalogramma piatto. Basti pensare al moto d’orgoglio della redazione di Repubblica, che ha “sfiduciato” il direttore Maurizio Molinari dopo aver cassato un numero di Affari & Finanza perché contenente un articolo di Giuseppe Pons (sempre sul pezzo) contenente…la semplice verità. Ovvero descrivente ciò che si è spesso sottolineato negli anni: l’assenza di un disegno “sovrano” per il capitalismo italiano sposta gli interessi a favore di Parigi, che questo disegno ce l’ha. A prescindere dal colore dei governi. La lingua batte dove il dente duole: Molinari, in quanto direttore, risponde a una precisa proprietà: Gedi, cioè Exor, cioè John Elkann. Ovvero i primi azionisti di quella Stellantis nata dalla fusione Fca-Psa avente passato italiano e futuro francese per le scelte del CEO Carlos Tavares.

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C’è un ampio “partito” economico-finanziario a cui i legami con Marianna piacciono. Lo dimostra la sfilza di Legioni d’Onore affibiate a politici nostrani

Il varo dell’investimento di Stellantis per la nuova gigafactory miliardaria di Dunkerque, nel Nord della Francia, è solo l’ultimo esempio di investimento a cui il gruppo si dedica preferendo Parigi a Roma. A proposito, a Dunkerque investirà in un impianto per l’acciaio anche il gruppo franco-indiano ArcelorMittal, che nel frattempo a Taranto lascia il socio italiano Invitalia a gestire Acciaierie d’Italia, l’ex Ilva, in una sostanziale situazione pre-fallimentare. E ancora: non si contano le acquisizioni francesi nel Made in Italy manifatturiero, dalla moda all’alimentare. Ma questo è il meno: i dividendi passano le Alpi, la manifattura rimane italiana. Più emblematico quando un gruppo come Credit Agricole vede la sua filiale italiana entrare nella top ten delle prime banche della Penisola. O assistere a un contesto in cui StMicroelectronics, gigante italo-francese dei microchip, dirotta investimenti (ben foraggiati da Emmanuel Macron) sulla Francia e il sito di Grenoble-Crolles in forma maggiore rispetto al polo di Agrate Brianza.

C’è un ampio “partito” economico-finanziario a cui i legami con Marianna piacciono. Lo dimostra la sfilza di Legioni d’Onore affibiate a politici nostrani. Lo confermano i ruoli apicali ricoperti nell’accademia (Enrico Letta) o addirittura nella politica francese (Sandro Gozi) da figure col passaporto italiano. Ma questo è marginale rispetto al dato di fatto del peso sistemico maggiore del “progetto-Paese” francese nel quadro degli equilibri europei. La Francia dell’industria, della politica, della strategia pensa come un sol uomo. Ragiona seguendo le logiche della cosiddetta “intelligence economica” dell’Ecole de Guerre Economique del teorico Christophe Harbulot. Secondo la quale il capitalismo francese deve essere perennemente all’attacco, espansionista, desideroso di crescere. Ciò che fa il gioco del privato francese compenetra l’interesse pubblico di Parigi, e viceversa. Il governo Meloni di recente ha fermato la vendita a Safran della strategica azienda di difesa Microtecnica? Bene, Macron ci era già arrivato nel 2017 con lo “schiaffo” di Saint Nazaire, i cui cantieri furono negati a Fincantieri. Sono poche le fusioni italo-francesi su un piano paritario. St lo è stata a lungo, per il resto si cita solo quella Essilor-Luxottica, decisamente complementare, e la cooperazione Fincantieri-Naval Group in Naviris.

Di recente, però, perlomeno nell’ultimo anno il contesto di preminenza transalpina sull’industria e la finanza italiana ha raggiunto l’acme. O perlomeno inizia a esser malvisto nell’opinione pubblica. Tanto che il governo Meloni si è trovato a dover agire: su Microtecnica, come detto; su StMicroelectronics, chedendo una governance italo-francese più bilanciata; su Telecom alleandosi al gigante Usa Kkr per formalizzare l’acquisto di NetCo, scorporando da una tlc avente la francese Vivendi come primo azionista la rete. Ma il caso decisivo è stato, ovviamente, Stellantis. La commistione di interessi politici, mediatici ed economici alla base del graduale disinvestimento di Stellantis dall’Italia e lo spostamento oltre le Alpi dell’interesse del gruppo ha aperto una ferita morale, prima che politica. C’entra il percepito, atavico legame tra l’ex Fiat e l’Italia e il senso di abbandono che parte dell’opinione pubblica ha vissuto. Ma anche il fatto che, come ha denunciato solo nella politica Carlo Calenda (alleato in Europa di Macron, cosa che oggettivamente gli rende doppiamente merito), il conglomerato di Repubblica possa essere accusato di aver coperto la ritirata dell’ex Fiat dall’Italia non seguendo casi come quello di Magneti Marelli o la querelle su Stellantis senza che tali puntualizzazioni possano essere rubricate a mere supposizioni. Il voto anti-Molinari segna, anche mediaticamente, un solco: nei rapporti con Parigi c’è bisogno di equilibrio e di evitare ogni senso di subordinazione. Non è sovranismo, ma pragmatismo. Quel pragmatismo che, a testa alta, la Francia dimostra pensando strategicamente al rapporto tra politica ed economia. Non è solo business. Ed è ora di impararlo.

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