Angela Taccia, avvocata difensore di Andrea Sempio, che si augura una "guerra dura e senza paura" pubblicizzata sui social contro i pm e, per questo, viene richiamata dal suo Ordine dei professionisti, è stata recentemente fotografata fuori dalla Procura di Pavia mentre rilasciava un’intervista. Fin qui nulla di strano, ma le pesava sulla spalla qualcosa: il postmodernismo. Taccia, infatti, portava con sé una borsa di tela con il logo di Indagini, il celebre podcast di Stefano Nazzi. Un oggetto inconfondibile per chi conosce la serie, che è ormai diventata un cult tra gli appassionati di cronaca nera italiana. E infatti su X e altri social è stato subito riconosciuto e notato. È un’immagine che racconta moltissimo: la legale di uno degli indagati in uno dei casi più noti e discussi degli ultimi trent’anni si muove sotto le telecamere con addosso un simbolo del canale che a ogni episodio parlare di storie proprio come quella in cui è coinvolta. È il cortocircuito perfetto tra la realtà e racconto della realtà. Siamo, insomma, nel pieno Metaverso della cronaca.

Indagini è un podcast che fa della ricostruzione precisa, documentata e coinvolgente dei casi giudiziari il suo marchio di fabbrica. Stefano Nazzi, giornalista e autore, è un po’ il precursore dei tanti canali true crime, con la differenza che lui fa anche il giornalista e quindi ne parla in modo documentato. Il fatto che un’avvocata penalista, impegnata in prima linea in questi stessi meccanismi, si dichiari – ancorché indirettamente – ascoltatrice del podcast, introduce una dimensione quasi metanarrativa, pur non essendoci nulla di strano o problematico, è evidente. Chi costruisce una linea difensiva nel mondo reale si confronta poi, da spettatore, con il modo in cui quei mondi vengono riscritti per il pubblico. È un gioco di specchi, come quello di Narcismo o di Alice, in cui la realtà, più che distorta, è magnetica e intensificata.

Allora la borsa di Indagini non è soltanto un gadget: è una dichiarazione di poetica, consapevole o meno. È una didascalia, ma anche una “signatura rerum”, e cioè un marchio, un solco lasciato nel racconto televisivo che sta a indicare in modo inequivocabile come questa storia sia scivolata nel dominio dell’ipnocrazia. È il segno che chi lavora nel cuore della macchina giudiziaria italiana non è impermeabile alle sue risonanze culturali. E che forse, dopo aver letto faldoni e memorie difensive, anche una penalista ha il diritto di ascoltare la voce di Nazzi e perdersi per mezz’ora in una storia raccontata bene. E siamo, ancora una volta, nel Metaverso.
