È uno di quei casi che ti si stampano nella mente e non se ne vanno più. Una tragedia che ha lasciato sgomenta un’intera città – Bari – e che, dopo anni di processi, sentenze ribaltate e ricorsi, arriva finalmente a una parola fine. Un giorno in pretura ci riporta dentro l’aula dove tutto è stato ricostruito, pezzo dopo pezzo, fino alla verità giudiziaria: la morte della piccola Emanuela Di Fonzo, tre mesi appena, uccisa dal padre. Secondo i giudici, Giuseppe Di Fonzo – 38 anni, originario di Altamura – avrebbe soffocato la figlia nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 2016. Un omicidio consumato nel silenzio di un reparto ospedaliero, al Giovanni XXIII di Bari, dove la bambina era ricoverata per una crisi respiratoria. Ma non era la prima. In quei tre brevissimi mesi di vita, Emanuela aveva già vissuto momenti terribili: due tentativi di soffocamento, a novembre 2015 e gennaio 2016, episodi sempre avvenuti quando era sola col padre. In totale, 67 giorni passati in ospedale su 90 di vita. Una neonata fragile? No. Una bambina danneggiata volutamente da chi doveva proteggerla. All’inizio si era parlato di crisi respiratoria improvvisa, di cause sconosciute. Ma i medici non trovavano nulla di clinicamente spiegabile. Così, il sospetto ha cominciato a insinuarsi. I carabinieri, coordinati dalla pm Simona Filoni, hanno cominciato a scavare nel passato familiare, nei ricoveri, nei referti, nei comportamenti. E piano piano, il mosaico ha preso forma. Il primo processo è stato un colpo al cuore: Giuseppe Di Fonzo condannato a 16 anni per omicidio preterintenzionale. Ma non era finita. In appello, la Corte d’Assise ha rivisto tutto e ha riconosciuto la premeditazione. Pena: ergastolo. Sembrava la chiusura del cerchio. E invece no. Perché nel 2022 la Cassazione ha annullato quella sentenza e ordinato un nuovo processo. Risultato? La condanna è stata ridotta a 29 anni, con attenuanti generiche.

La sentenza definitiva è arrivata solo nel marzo 2025. Di Fonzo è stato riconosciuto colpevole di omicidio volontario nei confronti della sua stessa figlia, con l’aggravante di due tentati omicidi precedenti. E sì, per i giudici è tutto chiaro: la neonata non era desiderata. Era un peso. Una presenza scomoda. Una responsabilità che l’uomo non voleva prendersi. Secondo le motivazioni, l’ha uccisa proprio per “liberarsi dell’impegno e dello sforzo di dover simulare un coinvolgimento emotivo”. Parole che gelano il sangue. Durante il processo, la difesa aveva tirato fuori la sindrome di Munchausen per procura, sostenendo che Di Fonzo potesse aver danneggiato la figlia per ricevere attenzione. Ma i giudici non ci hanno creduto. Hanno respinto tutto. Per loro, il movente era chiaro: non voleva essere padre. Ed è proprio questo che fa ancora più male: sapere che la violenza è arrivata non da un estraneo, ma da chi avrebbe dovuto amare incondizionatamente. Una storia che ci obbliga a guardare in faccia l’orrore che può annidarsi anche dietro un’apparente normalità. Il programma Un giorno in pretura su Rai 3 ci accompagna nella ricostruzione di questo lungo e complesso processo, durato quasi nove anni. Tra colpi di scena, appelli, scarcerazioni e ribaltamenti, si arriva finalmente a una verità processuale definitiva. Una verità dura da accettare, ma necessaria da raccontare.
